L'associazione persegue finalità di solidarietà sociale, civile e culturale, con l’obiettivo di informare e tutelare i cittadini delle zone incluse nel cratere sismico del 6-4-2009, per ottenere il pieno riconoscimento dei nostri diritti di procedere alla ricostruzione e riqualificazione partecipata delle zone danneggiate, secondo i criteri della massima trasparenza e della maggior efficacia, scongiurando il rischio di smembramento e dissoluzione socio-culturale delle popolazioni colpite.

TESTO INTEGRALE DELLO STATUTO

IL NUOVO SITO INFORMATIVO




ULTIMO AGGIORNAMENTO 10 Gennaio 2011



PICCOLO GLOSSARIO, parte II, seguito da Lettere d’amore alla Protezione Civile e Leggenda

RUMENA, la solita…
I castelli della Loira sono abitati da fantasmi romantici, quelli della Scozia da inquiete presenze sanguinarie; a Cerreto Guidi, la triste storia di Isabella de’Medici affascina e commuove i visitatori… “La solita rumena” è il fantasma che rende inquiete tutte le palazzine del progetto C.A.S.E. e, al contempo, mette a nudo la loro anima, ahimè troppo umana e debole. Nelle infinite varianti che può assumere la sua ectoplasmatica essenza, l’hanno avvistata in molti, e ne fanno argomento di conversazione quotidiano nei due – tre bar rimasti aperti in città, stupefatti della sua sovrumana resistenza. Per qualcuno è una rumena-albanese, per altri una rumena-sudamericana, c’è stato persino un caso di avvistamento di una rumena-polacca, con tanto di griffe papale sulla maglietta, sempre molto accollata. Si ha qualche notizia di tentativi di esorcismi collettivi, per allontanare dalle soglie l’aborrito odore del gulasch e del borsch, con suffumigi a base di aromi concentrati di amatriciana e salsicce all’aglio. Invano. Notoriamente, le salsicce all’aglio servono solo per le rumene-rumene originarie della Transilvania: avvistamenti, almeno per ora, non riportati.



TERREMOTO, s.m.
Spettacolo di dubbio gusto, inscenato preferibilmente al primo sentore di primavera. Dalle rare testimonianze di chi vi ha partecipato e ne conserva un ricordo sempre più sfumato (tipico dell’abbandono dello stato di trance), sembra essere l’estrema propaggine moderna degli antichi baccanali. I movimenti dei partecipanti sono improntati a “botte”, “salti” e “scosse”, non meglio specificati ma devastanti negli effetti, di cui sembra si misuri in intensità assolutamente soggettive il grado. La fiumana di persone coinvolte, in forza del “furor” che le aggredisce, rappresenta uno dei pericoli migratori più acuti e rischiosi dei nostri tempi. Non solo avere un “terremotato” in casa è divenuto così sinonimo di sfortuna e calamità prossima, ma il mare dei “terremotati” può, nel suo dionisiaco furore, far a pezzi persone e cose incontrate sulla sua onda montante. Si veda quanto si narra dell’Aquila dove, il 6 aprile del 2009, un esaltato e innumerevole esercito di invasati ha praticamente raso al suolo la città con le sue danze e “fughe”, distruggendo un inestimabile patrimonio artistico e abitativo. I successivi decreti tesi ad allontanare dalla popolazione superstite persino l’uso di droghe leggere, quali caffè, tè o sigarette, miravano essenzialmente a ridurre le possibilità del ripetersi di un tale, preoccupante fenomeno di massa. L’alto rischio percentuale di un simile evento ha giustificato l’adozione di provvedimenti drastici ed impopolari, ispirati al contempo alla logica della sorveglianza continua e della drastica limitazione di ogni veicolo di contagio e comunicazione dell’infezione psichica (v. “Metodo Augustus”). Il “cordone sanitario” steso in tale occasione attorno alla popolazione residua, si è spinto fino alla necessaria adozione di misure limitative della libertà personale, alla lamentata e deprecabile assenza di spazi riservati nei campi profughi (finanche nei bagni pubblici), all’utilizzazione strategica della promiscuità tra età e sessi diversi per evitare – attraverso l’inibizione preventiva di ogni stimolo sessuale – il ripetersi di comportamenti antisociali .
Dell’oscura vicinanza tra terremoto e culti orgiastici o di trance si è poi ottenuta una drammatica riprova quando la lontana Port-au-Prince, capitale dell’isola di Haiti, notoriamente patria del voodoo, è stata colpita da analoga disgrazia, a livelli incomparabilmente più alti. Risulta che l’appassionato appello del Massimo Responsabile e Guida italiano perché anche lì si adottasse il “modello aquilano” sia stato drammaticamente ignorato. L’ancor più prossimo e devastante terremoto del Cile è facilmente riconducibile all’insieme di culti estatici di tipo sincretistico, diffusissimi nel subcontinente americano. Gli incidenti diplomatici connessi con l’esternazione di cui sopra, hanno impedito al Responsabile Massimo e Guida di portare il contributo della sua esperienza anche in quella sede. Fatti loro.



SOPRAVVISSUTO, agg. e s.m. (f. –a) [p.p. di “sopravvivere”]
Principio esiziale del tempo. Tutti, più o meno, si sopravvive. C’è chi sopravvive alla politica, chi al ’68, chi al crollo del muro di Berlino, chi al terremoto. Cialente è sopravvissuto a se stesso.
Ottimo soggetto per istant-book che lasciano il tempo che trovano, ma costituiscono un insuperabile appoggio per rinforzare carriere politiche traballanti.









LETTERE D’AMORE ALLA PROTEZIONE CIVILE








Cara Protezione Civile,
ieri, mentre passavo per strada con l’amico mio nuovo, che andava a prendere un po’ di cose a casa sua, mi è capitato di ricordare i bei momenti passati insieme. Saranno stati i vicoli vuoti, sarà stata la pioggia che lavava via la polvere dei mattoni e delle rovine, sarà stato quel vedere scorrere per terra fiumi di acqua sporca che si mischiavano col dolore che sentivo dentro me… insomma, per la prima volta, mi è accaduto di pensarti con nostalgia.
Cara Protezione Civile, non mi sono mai chiesto, finora, ma tu, che ricordo hai di quei giorni. Ti manco? Senti ancora per me quell’affetto così deciso e protettivo? E dove sono andati i tuoi saggi consigli, le tue premure, i tuoi ricorrenti e indimenticabili segni di attenzione verso di me? Ah, come potrò mai dimenticare il momento in cui, incrociando per la prima volta il tuo sguardo, ho sentito come se mi sciogliessi dentro, e mi sono trovato attratto e protetto dal tuo capace ed abbondante petto generoso.
Cara Protezione Civile, dimmi la verità: chi stai assistendo, adesso? Mi hai già dimenticato, vero? Un amore fugace come i tanti della tua turbinosa vita, sempre in mezzo ad avventure audaci e spericolate.
Cara Protezione Civile, non te ne voglio. Sapevo dall’inizio che tra noi non sarebbe durato. Eppure, ecco, oggi, questo improvviso bisogno di scriverti, di sentirti, di farti sapere quanto il tuo ricordo rimanga indelebile dentro di me…
Cara Protezione Civile, ti prego: dimmi che non sono stato solo un’avventura!




DAL CENTRO OPERATIVO DELLA GUARDIA DI FINANZA




Spett.le Di.Coma.C.
Presso la Caserma della Guardia di Finanza
L’Aquila
Bazzano, 15 luglio 2009
Gentili Signori,
con questa mia vengo a significarvi quanto segue:
Io sottoscritto dott. prof. Generoso Magliacci, fu Emidio e Mariantonia, avendo appreso per la cosiddetta via breve che è in corso una gara d’appalto per la costruzione di un nuovo insediamento abitativo del progetto C.A.S.E., da situare sul territorio riportato in catasto alla partita 173653, foglio 131 p.lle nn. 397, 398, 197 e foglio 146 p.lla 178 del Comune dell’Aquila, per una consistenza di mq. 4816
poiché il suddetto terreno, per le particelle indicate e nella consistenza relativa è mia proprietà esclusiva dal 1978, come sicuramente si evince dagli atti in vostro possesso;
poiché la regolare registrazione dell’atto di proprietà è stata a suo tempo debitamente rimessa alle autorità competenti per il rilascio delle documentazioni d’uso;
poiché posso esibire regolare licenza edilizia datata L’Aquila 20 febbraio 1984;
poiché la mia casa insiste su detto terreno, di cui sono proprietario esclusivo, lo ripeto, dal 1978,
posso chiedervi dove cazzo intendete costruire le vostre case se qui c’è già la mia?
Distinti saluti.











LEGGENDA




Era estate. Il giorno preciso non lo ricordo e, francamente, preferisco evitare a voi e a me dettagli troppo definiti. Era un giorno di questa incredibile estate, uno dei tanti che abbiamo passato cercando di reinventare un significato alle nostre vite, di sollevare un po’ le anime dal peso che si portano dietro. Con Giannino avevo appena passato il confine di Porta Castello, che un solerte granatiere ci aveva fermati, interrogati, invitati ad andarcene alzando appena appena la voce. Giusto per farci capire che non scherzava. Che non era possibile scherzare, lì. A chiudere le sue parole col sigillo di un’autorevolezza persino soprannaturale, una piccola scossa – piccola, appena 2,8 – 3 gradi Richter – aveva fatto in modo che il suo “NO!” risuonasse ancora più a lungo dentro di noi.
Mi era rimasto dentro un desiderio frustrato, che cresceva e cresceva, complice il po’ di vino che Giannino e Gigi erano riusciti a farmi bere a cena, forse desiderando vivere un po’ di più le stelle di quella notte, forse per dimenticare le tante tristezze che i ricordi ci avevano portato, le tante cose che quel pugno di giorni, quel breve volgere di mesi ci aveva strappato. La città, la mia città, esita ancora a rivelare i suoi segreti a chi non la conosce, a chi non l’ha percorsa nei tempi perdendo dentro di lei e con lei le tante età della vita. Non per me.
Entrare non è stato difficile. Il varco c’è ancora oggi, ogni tanto lo controllo solo per dirmi che, volendo, potrei ripetere l’avventura. Un varco facile, sotto gli occhi di tutti, conosciuto da tutti noi che lo usavamo per scappare, per uscire di nascosto, per scendere non visti al fiume, per risalire e tornare a casa prima ancora che i genitori potessero avere il reale sospetto di cosa avessimo fatto nelle nostre scorribande a piedi, in bici, in moto… Sono entrato.
In fondo erano poche le cose che volevo rivedere. Da tutta quella distruzione mi interessava salvare i pochi ricordi che ora il tempo aveva fatto riemergere, le poche immagini assolutamente intime che potevano interessare al limite me, la mia ragazza di allora, la mia città che non c’è più. Tra la Villa Comunale e Piazza S. Giusta c’è, in un vicolo nascosto, una casa abbandonata. Nel “basso” a piano terra, visibile da una finestra con le grate un po’ fasulle, era una vecchissima Guzzi rossa, serbatoio a goccia, sellino mangiato dai topi, qualche striscia di colore ancora intatta e, soprattutto, un irreale cambio a cloche che troneggiava a destra. In una via ben conosciuta, a piedi piazza, un’edicola sacra appartata. Passavo di lì quasi tutte le sere e una signora anzianissima e curva sembrava aspettarmi per chiedermi, un giorno sì e uno no, se potevo mettere per lei un lumino acceso sul piccolo altare, troppo al di sopra della sua portata, e un po’ d’acqua nel vasetto della piantina a fianco dell’immagine sacra. Era diventata una piccola abitudine, fin quando, una sera, lei non si fece vedere. Né quella successiva. Né mai più. E dunque era diventato inutile accelerare i passi, o ritardarli, per far coincidere il mio passaggio col suo. E non mi ero mai chiesto, come invece stavo facendo ora, quante volte lei avesse accelerato o ritardato le uscite per trovare sulla sua strada quel ragazzo alto, cui non si vergognava di chiedere aiuto.
La lunetta, segnata e squassata, c’era ancora. Difficile leggere l’immagine al suo interno, e d’altronde il buio non aiutava certo. La Guzzi, invece no. Non c’era più il palazzo.
Allora ho cercato la casa dove, da adolescente, ho imparato ad amare i libri, il loro profumo, l’ordine misterioso e spesso esoterico che sottende al loro giustapporsi. Immaginavo le stanze che percorrevo avido, impaziente di trovare i testi che la mia curiosità inseguiva. La casa è ancora lì. Ho scavalcato la protezione del giardino, mi sono sdraiato nell’erba del piccolo prato dinanzi alla biblioteca. Ho sognato un po’.
È stato allora che ho iniziato a sentire che le cose, le ombre, le pietre stesse della città avevano una loro vita. E qualcosa di quella vita sembrava trasmettermisi. Come un vibrare, un silenzioso e dignitoso ritrarsi nell’ombra, un fievole far cenno alla mia presenza attraverso un crepitio appena appena accennato che gli scuri severi rimandavano alle tegole curiose, e queste suggerivano al muro del palazzo vicino, mentre poche pietre sofferenti, residue di un ingresso antico, giudicavano con accigliata superiorità il mio vagare solitario.
La città era insieme austera, familiare, ferita, estranea. Tra i tanti vicoli della mia infanzia mi sono nascosto alle ronde notturne, tra le macerie ho annusato gli odori della morte e della vita. Quasi l’alba, vicino a casa mia, ho ceduto al sonno. Erano le quattro, ed era bello chiudere gli occhi aspettando la prima carezza del sole.
Ho dormito? Non so. Ho sognato? Forse. Solo verso le sette ho iniziato a sentire, prima piano, poi sempre più forte, un suono dapprima debole e familiare che s’ingigantiva, cresceva, rombava fino a diventare impossibile, urlava dolente come un metallo compresso e battuto con ferocia. Il primo istinto è stato quello di fuggire. Di corsa, con appena il tempo di accendere la moto e scappare, a perdifiato, incurante del rischio che avrei corso se fermato. I vicoli, le strade in ripida discesa, e ancora, dappertutto, gli echi di quel suono. Ora dolce, ora martellante, ora trillante e ripetuto, ora lontano. Ma onnipresente. Dalle case vuote, dai palazzi abbandonati in fretta, finestre occhiute e spalancate mi rigettavano addosso quell’opprimente, insopportabile rumore.
ERANO LE SVEGLIE! A radio, a carillon, a trillo, a musica, a cucù; la mia, le vostre, le sveglie di tutta la città che si ribellavano all’abbandono, che continuavano imperterrite a segnare l’alba dei nostri giorni scomparsi, che ripetevano nel loro grido la voglia di non morire dell’Aquila, fino all’ultimo, esausto, lampo di energia della loro longeva vita elettrica. Erano le sveglie, esercito rumoroso e vigile, che mi richiamavano a una vita impossibile, trascorsa, di cui si rifiutavano di custodire silenziosamente il ricordo.
Erano le sveglie!

Marcello Gallucci

1 commento:

Unknown ha detto...

Dal sesto rigo, qualche lacrima cominciava a riempire la parte inferiore dei miei occhi, stress accumulato?, anche. Superato il 15°, la memoria che a volte non conosce ostacoli mi riporta il nome di Bioy Casares, compagno di avventure de Borges. Le narrazioni compartiscono un animo, credo, spero, difficile arrivare alla fine della storia. Che la tua sveglia sia contagiosa. Scusami gli orrori ortografici, un abbraccio, Raùl.