L'associazione persegue finalità di solidarietà sociale, civile e culturale, con l’obiettivo di informare e tutelare i cittadini delle zone incluse nel cratere sismico del 6-4-2009, per ottenere il pieno riconoscimento dei nostri diritti di procedere alla ricostruzione e riqualificazione partecipata delle zone danneggiate, secondo i criteri della massima trasparenza e della maggior efficacia, scongiurando il rischio di smembramento e dissoluzione socio-culturale delle popolazioni colpite.

TESTO INTEGRALE DELLO STATUTO

IL NUOVO SITO INFORMATIVO




ULTIMO AGGIORNAMENTO 10 Gennaio 2011



AD REPRIMENDAM AUDACIAM AQUILANORUM

CRONACA E ANALISI DEL
PROCESSO INTENTATO DA BRUNO VESPA CONTRO IL DISSENSO AQUILANO
L’Aquila, 15-4-2010
Antonello Ciccozzi
Ricercatore di Antropologia culturale presso l’Università degli Studi dell’Aquila, cittadino
indignato.
A scanso di equivoci preciso che non sono legato organicamente al cosiddetto “popolo delle carriole” (credo
nessuno lo sia, ma dai media potrebbe apparire una realtà diversa), o a comitati vari (per essere precisi
l’unico comitato a cui diedi adesione formale è “Un manifesto per l’Aquila” che però da vari mesi non è più
attivo.Ho partecipato da subito dopo il terremoto al dibattito e alle pratiche sull’Aquila post-sismica


Prima parte
ANTEFATTO: I FISCHI AQUILANI A BERLUSCONI
Che brutta figura hanno fatto i poteri locali e nazionali la sera del primo anniversario del
terremoto aquilano: pesantemente confutati nel loro tentativo di speculare sulla solenne
ricorrenza usandola come palcoscenico per una rappresentazione di efficienza
istituzionale, si ritrovano castigati attraverso una liberatoria contestazione spontanea
partita dalla gran parte dei cittadini radunatisi in piazza Duomo. La gente ha capito la
piazzata di questo inutile consiglio comunale: la discrezione del lutto diventa pretesto per
imporre il silenzio alla cittadinanza, e innestare su ciò la pretesa di usare l’anniversario per
una volgare sfilata propagandistica di pret-a-porter amministrativo. In rivolta non solo
“comunisti” o “no global”, ma la maggior parte della gente, gente “normale”, come quelli
delle carriole, e non solo. Poi, addirittura, durante la lettura del messaggio inviato da
Berlusconi, l’apoteosi: “i fischi hanno superato di molto gli applausi”, così riportava
l’ANSA. Molti giornali italiani hanno stampato notizie simili più o meno stemperate, e in
Europa lo stesso. Anche in America il Washington Post s’è accorto che L’Aquila - città
ferita da un terremoto e stuprata da una pseudo ricostruzione finalizzata prima al profitto
che alla gente - è contro il Governo.
Devo essere sincero: data l’indignazione accumulata durante quest’anno mi sento anch’io
come una pentola a pressione, e non mi sarebbe dispiaciuto affatto buttare qualche
genuino e catartico improperio, ma ero arrivato un po’ tardi e sia il tendone che gli spazi
intorno erano già strapieni. Poi era talmente tanta la gente che già lo faceva che sono
rimasto senza fiato, quasi in contemplazione estatica, ai bordi della piazza ad ammirare,
ancora una volta, come finalmente succede qui da qualche settimana, una città
sinceramente in rivolta. Pieno di gente che faceva casino, dentro e fuori il tendone. Tanti, e
per qualcuno troppi. Un putiferio di fischi. Che emozione. Che gioia. Che brutta figura. A
questo punto le cose sono due: o il Governo ha speculato sul terremoto (vai a sapere,
magari facendo profitto e propaganda), o gli aquilani sono degli ingrati. A questo punto la
città si è ribellata, e in un mondo retto dai media quei fischi sono fucilate1.
UN GIUDICE PRIMO IN CLASSIFICA (E IL SUO CONFLITTO D’INTERESSI)
Così Bruno Vespa, che con la televisione ci sa fare, il giorno dopo ha pensato bene di
arredare velocemente una puntata del suo “Porta a porta” per ristabilire un po’ d’ordine,
mimetizzando nel titolo “L’Aquila quando rinasce?” 2 un processo ai terremotati dissenzienti. “Ad reprimendam audaciam aquilanorum!”, è l’iscrizione che ricorda agli
aquilani come nel XVI secolo gl’invasori spagnoli repressero la coraggiosa ribellione
popolare contro la dominazione: il viceré di Spagna Don Pedro da Toledo impose di erigere
un’enorme fortezza militare, lasciando tuttavia alla storia uno dei più importanti
monumenti dell’Aquila. Grazie a Bruno Vespa questo motto rinascerà degradato nella
trasfigurazione “preferivate stare nei container?”. Il tutto per motivare e difendere la
pretesa miracolistica di un’opera di urbanizzazione cheoltre a dare un tetto che sarebbe
potuto costare molto meno, ha alimentato, con il pretesto dell’emergenza, un sistema di
profitto sugli aiuti, ha assolto una funzione propagandistica attraverso l’ostentazione della
monumentalità spicciola delle “new town”, e ha prodotto – a causa dell’incompetenza e
della corruzione delle elite locali – una territorialità malata che peserà sulle nostre vite per
lungo tempo. Oggi nel motto coniato da Bruno Vespa per difendere l’opera del “viceré”
Bertolaso e quella del “sovrano” Berlusconi c’è un punto interrogativo, perché quella frase
è nel nostro caso una minaccia che ci dice di stare zitti e ringraziare, di fare in fondo il
nostro ruolo di abruzzesi forti e gentili, sopportando con mansuetudine, pena la gogna
dello stereotipo di “INGRATI!”.
Si annuncerà una puntata fantastica per il giornalista aquilano, che si è da poco piazzato
al primo posto assoluto come “personaggio più deplorevole dell’entourage berlusconiano”3;
superando anche Emilio Fede, che però ormai per eccesso osceno e plateale di parzialità
non fa più scandalo: Vespa riesce ancora a far credere a un numero consistente di persone
di essere imparziale, e questo lo rende il numero uno di un ben occultato ministero della
propaganda. Bruno Vespa. Non uno fra tanti, ma primo nell’affollato plateau dei cortigiani
di Berlusconi. Il numero uno. Certo, si dirà che la classifica viene da un giornale -
l’Espresso - che dà l’impressione di essere schierato contro il nostro attuale sovrano; ma il
risultato pone in questo caso un problema su cui almeno gli aquilani dovrebbero riflettere
al di là delle ascendenze politiche attraverso cui si prova forse a dividerli e distrarli dal
valore comune di una ricostruzione partecipata e sostenibile.
Bruno Vespa - ricco borghese romano ormai da tempo - rivendicando origini e proprietà
aquilane, esibisce un’appartenenza che gli conferisce partecipazione emotiva al dramma
del terremoto. Se Vespa partecipa al pathos per la ricostruzione dell’Aquila, e partecipa al
sostegno per il Governo, come fa a giudicare in modo equilibrato, ossia (equi)distante, il
dissenso degli aquilani contro il Governo? Evidenziate queste premesse è ineluttabile che
egli è, nella sua persona, costitutivamente e quindi aprioristicamente immerso, appunto, in
quello che da qualche anno si suole definire come “conflitto d’interessi”. Già il solo essersi
messo in mezzo configura, in un’apparente aporia, un piano d’ipocrisia. Vespa sostiene un
Governo che sostiene delle scelte economiche, L’Aquila ha bisogno di una ricostruzione
basata su priorità socio-culturali locali prima che su interessi politico-economici nazionali.
Le necessità di ricostruzione della città possono andare in conflitto con quelle economiche
del Governo. Se i bisogni reali della città vanno contro quelli del Governo che succede sotto
il tavolo di “Porta a porta”? O fa un passo indietro il Governo o lo fa la città.
E nei fatti Vespa, come sempre, anche questa volta dà più di un’impressione di stare da
una parte, e contro un’altra; di usare la sua posizione di potere mediatico e la sua presunta
aquilanità per sostenere il Governo nell’affare del cosiddetto “terremoto d’Abruzzo”, contro
la città, contro chi ci vive per davvero, e s’impegna per seguitare a farlo. Nei fatti Bruno
Vespa dà l’impressione di essere un giudice, di uno che in un contenitore di giornalismo
neutrale mimetizza alcune funzioni fondamentali di un ministero della propaganda.
3 http://espresso.repubblica.it/dettaglio/cortigiani-ditalia:-vince-bruno-vespa/2124431
3
IL RIMEDIO MEDIATICO
Quando ci vuole ci vuole. Riducendo il dissenso epocale che sta montando in città
all’espressione di pochi ingenui autoeletti rappresentanti del “popolo delle carriole”, si
perverrà a una facile sentenza di condanna d’ingratitudine, passando per l’olio di ricino dei
containers.
Una carriola - con tanto di macerie all’interno - è piazzata a fare bella mostra di sé in
mezzo allo studio; intorno all’oggetto gli ospiti, tra cui spicca la “destrissima” giovane
ministro della Gioventù Giorgia Meloni. A suo fianco il presidente della Provincia di Roma
Nicola Zingaretti, uno di centro-sinistra a fare da avvocato degli aquilani, perché siamo in
democrazia a un po’ di contraddittorio bisogna metterlo per onorare il principio della
“rappresentazione di tutte le parti in causa”4 e quindi giocare sulla loro manipolazione più
o meno corretta, attraverso tempi e regia, dispensando sottili sgambetti o elogi a seconda
della parte. Per non lasciare sguarnita la parte emotiva, compaiono anche Michele Placido
che parla di Silone, e i genitori di una ragazza vittima del sisma. Arriveranno in seguito
altri due “terremotati” e due “esperti”. Infine, oltre la carriola, ci sono ad arredare lo studio
anche Chiodi e Cialente, presenti come siamo abituati ormai da tempo a vederli quando
hanno a che fare con gente più potente di loro: sornione il primo e svaporato il secondo.
Due collegamenti esterni. Il primo ha come protagonista Guido Bertolaso, che - in gran
rispolvero dopo le recenti accuse di corruzione - parla maestosamente da una sala di
controllo, con la maglietta della Protezione Civile; e, sopra una grossa scritta che lascia
leggere “lavori di esecuzione”, non uno ma otto monitor accesi alle sue spalle, che
riempiono lo sfondo con immagini del progetto C.A.S.E.. Appare granitico il Commissario
del fare, del “lavoro”, delle “c.a.s.e.”, l’eroe delle emergenze a cui Vespa ha già dedicato lo
spazio che si merita in altre recenti puntate del programma, tra cui quella “Un servitore
dello Stato nel mirino dei giudici”; un titolo di navigata sagacia, una presentazione che è
già occasione per un elogio (“servitore dello Stato”) e quindi per un sospetto di immotivata
e violenta aggressione (“nel mirino”).
CARRIOLE RATTRAPPITE
L’altro collegamento è per il movimento denominato dai media il “popolo delle carriole”,
o meglio per tre cittadini che un po’ ingenuamente si prestano a fare da imputati in questa
trappola tesa nel tentativo di screditare mediaticamente la genuina indignazione di una
parte enorme della città. I tre sono in piazza Duomo, lo stesso luogo dell’offesa della sera
prima al Governo, al freddo sotto la chiesa simbolo delle “Anime sante”; al loro fianco una
ventina di concittadini con lo striscione “verità e giustizia”, davanti a tutti tre carriole con
pale e secchi all’interno. Un presepe. Già è in atto il processo di rattrappimento della
carriola, da simbolo di autonomia e di rivolta, a degradato elemento folkloristico. “Toro
seduto al circo”, così si dice per descrivere a sottrazione di valore a persone o oggetti, attraverso una semplice operazione di de-contestualizzazione. Già da subito la carriola è
sottilmente declassata a conca di rame dell’abruzzese “forte e gentile”, marker identitario e
stereotipo tradizionalista del montanaro che, come abbiamo capito da tempo, facilmente
degenera in sottinteso eufemismo di “cafone-allocco”.
Con altri concittadini mi trovo, appena fuori dalla gittata delle telecamere, ai bordi di
questa mediatica graticola dell’ingratitudine; siamo da subito perplessi per questa
iniziativa. Sarà perché scopriamo presto che si tratta di una finta diretta, di un programma
che andrà in onda due ore dopo (e eventualmente c’è tutto il tempo di tagliare proteste
forti, che così sono scoraggiate). È abbastanza chiaro che si giocherà a ridurre a retorica
sconclusionata i contenuti della carriola-conca, al fine di riempirli di ottusa ingratitudine.
Disapproviamo variamente lo slancio dei tre che si sono prestati al gioco di Vespa in quel
modo che già pare grottescamente ingenuo; ma, come si suol dire, nel rispetto della
volontà altrui, restiamo a vedere un po’ inquieti come si sviluppa la cosa. Settimane
d’impegno civile e di risultati storici già minacciano di finire degradati al quadretto di
qualche ingrato borghesotto che, stordito dal terremoto e probabilmente indottrinato dai
comunisti, farnetica sparutamente poco chiare invettive contro il palese miracolo del
Governo benefattore, illudendosi di poter fare l’operaio che ricicla le macerie; una
minoranza di scriteriati, generosamente e pazientemente ascoltati solo per paternalistico
spirito di sacrificio democratico.
Il processo ha inizio. Ecco le fasi salienti. Alla ministra Meloni il compito di iniziare a
introdurre l’asse principale di discriminazione: quando Vespa, coinvolgendosi attraverso
un “noi” di apprensiva partecipazione, le chiede genericamente se “ce la faremo”, ella
risponde che francamente ce l’abbiamo già fatta perchè in Umbria dopo tredici anni
qualche famiglia vive ancora in un container. La cornice è pronta: DA UN LATO I
CONTAINERS DELL’UMBRIA, DALL’ALTRO LE FAVOLOSE C.A.S.E. DEL DUO
BERTOLASO-BERLUSCONI.
Tale e quale al bieco santino elettorale propinato a tappeto ai terremotati aquilani per le
elezioni provinciali: “Umbria e Marche 1997, Governo Prodi, ad oggi ancora Container per
famiglie – Abruzzo 2009 Governo Berlusconi, ad oggi Case antisismiche per famiglie”; poi
sotto la scritta: “Il governo dei fatti, la differenza che conta!”; e dietro: “la dignità
dell’uomo e della famiglia prima di tutto!”. È raro vedere una prova così volgare di
degradazione del diritto a favore. Ecco che già si delinea la finestra di decontestualizzazione
del titolo del programma: dalla maschera del titolo “L’Aquila quando
rinasce” si passa a “i containers o le c.a.s.e.”, “la protesta o il lavoro”, “le opinioni o il fare”.
Varie coniugazioni del rozzo, antidiluviano manicheismo del regime mediatico di
Berlusconi mimetizzato in forma di democratica legittimità: “l’odio o l’amore”.
In seguito parte un servizio sul centro storico deserto, dove, dall’eloquente concretezza
della città in macerie, un anziano signore, uno che più popolare non si può, che si dichiara
felicemente residente nel progetto c.a.s.e. (deportato a 10km dalla città, quando si sarebbe
potuto costruire in prossimità della periferia), denigra pesantemente e senza mezzi termini
le manifestazioni del popolo delle carriole, sottolineando l’impossibilità di rientrare subito
e l’ipocrisia della pretesa che lo spalare le macerie possa essere lavoro concreto (sentenzia
che: “a dirlo così è tutto facile, io mò direi a quelli con le carriole: bene, per un anno, gratis,
lavorate…levate, levate…ta vedè come se la squagliano!”). Il significato simbolico della
protesta, ampio, che dovrebbe riguardare una richiesta di autonomia nella ricostruzione, di
riappropriazione partecipativa della città, è già appiattito a quello pratico del lavoro; e ciò è
proferito non da Bertolaso, ma da un anziano aquilano ineluttabilmente popolare (già di
per sé emanante saggezza e autenticità) che riprende un concetto identico a quello
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espresso proprio da Bertolaso per denigrare il movimento. Il rito è confuso con la pratica,
l’emblema è ridotto all’oggetto.
Quando la parola va ai tre che si sono variamente e imprudentemente fatti eleggere a
“rappresentanti del popolo delle carriole” s’inizia con la giostra dell’ingenuità, e non solo
perché nessuno si accorge che a questo punto già ci sarebbe da scardinare il frame imposto
dalla conduzione: la cornice dei containers della Meloni e delle carriole impietosamente
degradate dal vecchio aquilano da simbolo di rivolta a indice di lavoro manuale. No: il
primo intervistato si sbilancia dichiarando di parlare a nome di tutta la città, rivelando così
non solo una pretesa eccessiva, ma anche inesperienza riguardo i più elementari codici di
movimento rispetto alla questione fondamentale della “rappresentatività” (che Vespa userà
in chiusura di trasmissione sottolineando beffardamente che “quando c’è la democrazia le
città decidono di nominarsi i loro amministratori”). Subito dopo l’intervistato annuncia di
avere quattro domande, ma elenca da un foglio solo tre punti confusi, di cui unicamente il
primo è una domanda comprensibile sul mancato allarme, il secondo è un’osservazione
confusa, il terzo un vago auspicio. Dopo una presentazione del genere Vespa deve aver
capito subito che può giocare al gatto e al topo, e chiede ad un altro: “che cosa non vi
convince di questa ricostruzione?”, per avere una risposta titubante, sfocata e retorica sulla
“differenza tra quello che si pensa nelle stanze del potere e quello che invece si pensa”,
seguita da una poco incisiva lamentela per l’impedimento ad occuparsi da subito delle
case, e da un’imprudente accusa alla Meloni per non essere venuta a L’Aquila di persona.
A questo punto Vespa inizia a percorrere la strada dell’ingratitudine da ottusità
bacchettando le ansie di rientrare a casa, dichiarando che in Friuli, a Gemona: “le persone
sono state messe nei containers e poi sono andate negli alberghi della costa. A nessuno è
stato consentito di andare nel centro di Gemona a riprendersi casa sua, perché purtroppo
ci sono delle priorità, ci sono delle stazioni di via crucis da rispettare […]. Sto parlando del
Friuli dove la ricostruzione è stata meravigliosa, al contrario di quella della Campania”.
Attenzione, si delinea qui la chiamata in causa di una griglia stereotipica importante: a
Nord i terremoti virtuosi, a Sud quelli viziosi; e la minaccia per gli aquilani di finire nel
“girone dei dannati” con l’accusa d’ingratitudine.
Poi interpella la Meloni, la quale - avendoli fatti qualche volta i cento chilometri tra
Roma e L’Aquila - si ritrova il regalo insperato di poter sostenere che: “rischiamo di non
accendere adeguatamente i riflettori sul lavoro che è stato fatto!”. Siamo al grottesco: dopo
un anno di propaganda a tappeto sulla città, dopo una sequenza martellante di quotidiane
passerelle mediatico-propagandistiche in cui solo nei cessi - e nemmeno sempre - si poteva
stare senza telecamere, dopo tutto questo alla ministra viene fornita su un piatto d’argento
l’occasione di affermare che i riflettori non sono stati accesi abbastanza sul miracolo
aquilano. Può andare peggio di così? Sì.
LA FUCILAZIONE
Il momento topico si apre dopo un po’, quando la linea torna a piazza Duomo, i figuranti
con lo striscione “verità e giustizia” si sono dileguati, un po’ per il freddo un po’ per la
prima figura, e la terza rappresentante del popolo delle carriole prende parola dichiarando,
stavolta efficacemente, che le carriole “hanno voluto squarciare un velo sul finto miracolo
aquilano che l’informazione sta facendo passare da un anno su questa città”. Per qualche
istante pare vada meglio. L’esposizione prosegue un po’, ma Vespa non accetta le accuse di
mistificazione; sta subendo l’efficacia del tono puntuale sincero, così devia forzosamente
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sulla domanda chiave dell’impianto accusatorio: “preferivate stare nei container?”. C’è
titubanza nel rispondere, si sente dall’altro carriolante un vago e impaurito: “ma che modo
è di ragionare!?!”. Vespa prontamente coglie che è il momento dell’affondo. La domanda
viene reiterata fra il conduttore e l’inviata cinque volte, con serrata severità, in un atto di
violenza verbale che svela un’ossessione da inquisitori. A rivedere il tono e i modi di questi
“giornalisti” provo fastidio. Mi sento offeso, guardo più volte le immagini di questa
“tonnara” sotto la chiesa delle Anime Sante, penso alla fandonia del “rappresentare tutte le
parti” con qui questi millantano di fare informazione corretta, vedo miei concittadini,
persone che vivono un dramma enorme e cercano di fare qualcosa, offesi profondamente
come se fossero dei cialtroni delinquenti. Mi viene da vomitare. L’intervistata dichiara che
la domanda è mal posta, ma, senza spiegare perché, dice che si rifiuta di rispondere. La
sensazione della trappola è percepita, ma non arriva ad essere razionalizzata e rilanciata
contro l’aggressore. In questo contesto il rifiuto di rispondere suona come una resa, è
l’errore più grave. Qui un conduttore scorretto può sfondare. Ed è quello che avviene.
Siamo allo sciacallaggio semiotico, e Vespa ora sembra un avvoltoio che, in un impeto
crescente di frenesia alimentare, si avventa sui carriolanti che vede già carcassa.
E non è solo: in un clima di forte e sempre maggiore agitazione, l’inviata coglie l’attimo e
entra anch’essa in frenesia, chiedendo molto aggressivamente ad un altro dei tre, quasi
gettandoglisi sopra: “scusi, allora qual’era l’alternativa secondo lei?!?”. La risposta data
abbozza delle argomentazioni spendibili ma purtroppo mescolate in modo tentennante e
confuso: “l’alternativa non era fare quelle case, che è solo la terza fase, quelle sono
definitive in qualche modo. L’alternativa era…cioè, voglio dire, dal terremoto del Friuli
adesso ci stanno quindici anni vent’anni di differenza”. Vespa interrompe con inclemente
fiscalità: “trentaquatto per la verità!”, come se si trattasse di un punto che inficia l’intero
discorso (mentre semmai lo andrebbe a rafforzare). Dice “per la verità”, come se qualcuno
stesse mentendo. L’intervistato prosegue: “la tecnologia va avanti, ci sono casette che sono
molto migliori di quelle che hanno realizzate qui sopra”.
Vespa chiede allora, con un tono di scocciato paternalismo che è già giudizio inquisitorio:
“dove le ha viste?!? dove stanno?!?”, poi subito prosegue agganciando la ramanzina di
fondo: “in Umbria, alcuni, gli ultimi, pochissimi per fortuna, sono ancora nei container!!!”,
per seguitare, scandendo con tono severo e lapidario: “vorrei sapere in quale zona del
mondo ci sono delle sistemazioni, a pochi mesi da un terremoto, migliori di quelle che
sono state fatte a L’Aquila. Dove?!?”. Non serve che l’intervistato abbia già risposto,
durante la domanda, titubante ma sincero, e impedito dal volume del microfono abbassato
dalla regia: “a Onna per esempio” (infatti a Onna Berlusconi inaugurò indebitamente le
case d’emergenza donate dalla regione autonoma del Trentino, e finite prima di quelle del
Governo, Vespa celebrò la farsa, con il sindaco dell’Aquila in trasmissione che non si
azzardò a svelare la finzione). Non serve. Perché, già prima della fine della domanda
stizzita di Vespa, la regia alza il volume su un puntuale applauso del pubblico; quindi tra lo
scrosciare di mani subito il conduttore dà un’altra indispettita stoccata, il colpo di grazia.
Infatti c’era una sorpresa: “è bene che io faccia vedere il pubblico, perché non è una clac
ma sono i Vigili del Fuoco, e li ringrazio anche a nome vostro se permettete!. Va bene?!?
Ecco qua!!!”.
Tra mixer e regia devono aver fatto un lavoro di gran tempismo ad alzare il volume in
sala, perché gli applausi, pur non essendo molti, sono partiti al momento giusto e sono
stati da subito generosamente amplificati, producendo un piccolo oceano di frastuono.
L’inquadratura va alla ministra Meloni che applaude e scuote la testa sdegnata con la bocca
corrugata e gli occhi spalancati che invadono schermo, poi la regia stacca stretta su un
vigile che applaude. La sentenza d’ingratitudine è solennemente pronunciata, la fucilazione
avviene attraverso il microfonicamente simulato fragore dell’applausino dei Vigili del
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Fuoco, gli eroi indiscussi dell’emergenza, riciclati ora come autorità morale e come
esecutori di una condanna partita dall’accusa del vecchio aquilano. Una condanna severa
contro la “clac” dei carriolanti, che - dulcis in fundo - Vespa si cura di redimere in estrema
unzione dal peccato originale, ringraziando i Vigili al posto loro. Terremotati ingrati!
MI RITROVO IN MEZZO
Come ho prima detto, ero lì al bordo della scena insieme ad altri dissenzienti come me
che - sapendo che mi ero occupato in dettaglio della questione “case/containers” da subito
e vedendo una deleteria indecisione negli intervistati - mi spronavano caldamente ad
intervenire in un vernacolare “dai, vagli a dà ‘na mano che stann’a ffa na figur’e mmerda”.
L’invito aumentava con l’aumentare della tensione. Molte delle persone orbitanti nella
magmatica sfera della cittadinanza attiva avrebbero potuto rispondere forse meglio dei tre
sotto fucilazione, non perché più “bravi”, ma perché più addentro alla questione sin
dall’inizio: il caso ha voluto che questi carriolanti siano entrati nel dibattito post-sismico
da poco tempo, e siano perciò meno smaliziati sulla questione delle tipologie abitative
emergenziali, su costi e possibilità alternative (altre case rispetto a quelle imposte dal
Governo e altri container rispetto a quelli dei terremoti passati). Queste furono questioni
del dibattito cittadino fino all’estate scorsa.
Paradossalmente, rispetto a un inizio scadente, gl’intervistati non sono andati “male”
rispetto ai contenuti nella fase topica, ma hanno ceduto all’attacco a causa di una poca
puntualità, chiarezza, incisività. È anche questo un elemento che rivela la faziosità di Vespa
e rende ancora più sospettabile di tradimento la sua proclamata apprensione da
appartenenza verso le sorti della città. In tutti i modi, la rabbia per quello che vedo supera
la ritrosia e mi faccio convincere. Glielo devono dire loro al tanto informato Bruno Vespa
che non ci sono solo quelle c.a.s.e. e che non ci sono solo i container del passato? Possibile?
Ho da tempo notizia che lo sa, quindi lo nasconde. Provo rabbia. Così, mentre lo studio
celebra gli applausi sparati dai Vigili ingaggiati per l’occasione e scoperti a sorpresa per il
gran finale, vengo portato dentro la scena; uno dei tre mi vede e chiede immediatamente
all’inviata di farmi parlare.
Vespa seguita subito, sempre più lapidario e ad alta voce: “la domanda è dove nel mondo
è stato fatto di meglio, dove?!?”. L’inviata m’invita a rispondere, e lo faccio con queste
parole: “credo che questo sia un modo scorretto di comunicare perché non si può ridurre
tutto a un’alternativa polare, ossia a una logica del terzo escluso. Non è questione ‘o accetti
le c.a.s.e. o i container’. Il punto è questo: le c.a.s.e. sono costate cifre enormi, le piastre
antisismiche sono state motivate come necessarie, quando non sono necessarie. Ci sono
tipologie costruttive che permettono di evitarle”. Il padrone di casa abbassa nettamente il
tono di voce e mentre ancora parlo mi dice: “questo è un suo parere, questo è un altro
discorso”. Ribatto immediatamente in modo deciso: “no! Non è un mio parere, non è un
mio parere, questo è un fatto”.
Le emissioni si accavallano. Mentre parlo il conduttore si blocca un attimo, china la testa,
si tocca la fronte con la mano destra. Parte il campanello della trasmissione insieme alla
chiassosa sinfonia del jingle della sigla, il gong che all’occorrenza mimetizza la censura che
Vespa pratica sistematicamente nei momenti di empasse. Il conduttore annuncia: “allora,
scusate, scusatemi, io faccio entrare due persone, scusate….forse ci aiutano un momento”.
Invita i professori Andrea Carandini e Pierluigi Nicolin, mentre mi indica e promette
all’inviata: “adesso torniamo Vittoriana, calma, calma…vorrei chiedere proprio per
rispondere a questo signore, proprio un parere a Nicolin”. Ricevo da subito l’impressione
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che ho messo in mezzo al discorso il tema del profitto sottolineandolo come scelta fuori
dalla necessità, perciò la censura va in porto. La deriva pericolosa del profitto viene
deviata e estinta, grazie anche alla ripresa smania degli altri rappresentanti del “popolo
delle carriole”.
Infatti, per il resto della trasmissione chiedo all’inviata di poter proseguire il discorso
che mi è stato interrotto, ma inutilmente. Fuori dal collegamento ella confabula con la
cuffia, si consulta con la regia, mi dice, “sì, sì, adesso la faccio parlare al prossimo
collegamento”; ma puntualmente mi evita, poi inizia a dirmi che il mio intervento “non era
previsto”. I tre delle carriole non manifestano nessun tipo di coordinamento, e in qualche
caso, specialmente ora che le acque si sono calmate, mi pare che si stia lì a fare a gara tra
chi riesce a farsi dare il microfono dall’inviata Vittoriana Abate, che così sceglie secondo i
suoi comodi. Essendosi piazzato davanti, chiedo due volte a uno di loro, che si stringe a
“Vittoriana” chiamandola per nome, la cortesia di aiutarmi a finire di parlare, ma non c’è
da fare: pur essendo lo stesso che sostiene di esprimersi a nome di tutta la cittadinanza
mostra di non ascoltare nemmeno chi gli sta di fianco, così mi ritrovo in concorrenza con
uno che non rivela la bontà di sacrificare un’occasione di farsi vedere in tv.
Tra le “truppe della liberazione aquilana”, di cui a mio modo anch’io mi fregio di far
parte, oltre a conclamate dosi di storicizzabile audacia, non si è immuni dai soliti effetti
perversi del collettivismo che con varia incidenza periodicamente si manifestano. Voglio
dire che in quest’esercito di condottieri più o meno mancati scarseggiano i soldati semplici
e ci si scopre a volte in un congestionante pullulare di tratti o disturbi narcisistici più o
meno conclamati, manie di grandezza, variamente striscianti, eccessi di autostima,
protagonismi vari. Così, dopo un anno di ortodosse lotte varie contro Berlusconi e
Bertolaso, mi ritrovo all’improvviso a chiedermi chi è più coglione: io o questo che mi sta
di fianco. Nel dubbio lascio perdere. Prendersela con le istituzioni, con il potere, con i
padroni o che dir si voglia può avere un che di romantico che rende dolce l’antagonismo;
ma scoprirsi - fuori dalla grazia di qualsiasi elementare grammatica ribelle - a fare a
gomitate in questo modo, anche tra chi “la Bastiglia” la dovrebbe assaltare (e poi nel nostro
caso l’”assalto alla Bastiglia” sarebbe difendere la “baracca”), è patetico e avvilente. Così
dopo poco mi tiro indietro, e rimango sconcertato a osservare questo circo. Mi sembra di
stare in un casting di qualche reality. Se lo avessi immaginato non mi sarei fatto trascinare
nemmeno a forza. Ma ormai è fatta.
Quindi, mentre mi ritrovo riconfermata la censura in modo ancora più sottile anche
grazie a quest’efflorescenza di varia umanità, l’intervistato “accreditato” interviene e fa un
ulteriore regalo a Vespa riguardo l’opposizione “container-case”. Non scardina la polarità
precisando che ci sono molte tipologie di case (meno costose) e molte di containers (più
vivibili); ma, dopo aver seguitato dare delle proclamazioni a nome dell’Aquila intera, si
assume come esempio sostenendo che per lui l’alternativa è casa sua, affermando che il
succo del problema sarebbe che il progetto c.a.s.e. è stato destinato non solo a chi rientrerà
a casa tra quindici anni, ma anche a quelli che, come lui, sarebbero potuti rientrare a casa
assai prima, in tre mesi dice.
Questa dichiarazione - oltre a magnificare il progetto c.a.s.e. per i quindicimila che
hanno aspettative di rientro di molti anni - dà a Vespa l’occasione di annunciare un
solenne “troppa grazia!” per questo “giovanotto” che ha avuto pure una casa che non si
meritava; e quindi subito dopo bacchettare il sindaco Cialente imputando a lui
l’assegnazione scriteriata delle c.a.s.e., e poi i ritardi per la ricostruzione. La risposta del
sindaco a queste gravi accuse - utili di riflesso alla redenzione della Protezione Civile da
qualsiasi errore che anzi risulta santificata per un miracolo finanche eccessivo - è, come
sempre, inconsistente e spesso incomprensibile. Non stupisce che, per tutta la
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trasmissione, il nostro primo cittadino abbia fatto passivamente da discarica istituzionale,
sorbendosi ogni critica d’inefficienza, senza opporsi minimamente al disegno di Vespa di
attribuire tutti i meriti al Governo e alla Protezione Civile e tutti i demeriti
all’amministrazione locale (che certo ne ha, ma non da sola).
Comunque, lasciando stare il Sindaco, ecco l’imparzialità di Bruno Vespa. Qualcuno
penserà che si trattava di tre sprovveduti, diventati al massimo quattro gatti col
sottoscritto, ma quello che è andato in scena nella data cruciale dell’anniversario del sisma
è stato un processo mediatico contro il diritto della città di esprimere dissenso verso
l’operato del governo, strozzando un dibattito complesso e articolato in una grettamente
violenta polarizzazione “case o containers”. Lì non c’erano solo loro o io, c’erano anche le
migliaia di persone che hanno sostenuto le carriole; ma non solo, e questo vorrei che si
capisse: lì c’era il diritto di una città di non essere stuprata da una (ri)costruzione votata
prima al profitto che alla gente. Lì è stato posto un paletto di senso comune nazionale
secondo il quale chi all’Aquila dissente è ingrato. Questo non è accettabile. Domenica sto
con le carriole, che avranno tanti difetti, ma almeno vogliono bene a L’Aquila.

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