L'associazione persegue finalità di solidarietà sociale, civile e culturale, con l’obiettivo di informare e tutelare i cittadini delle zone incluse nel cratere sismico del 6-4-2009, per ottenere il pieno riconoscimento dei nostri diritti di procedere alla ricostruzione e riqualificazione partecipata delle zone danneggiate, secondo i criteri della massima trasparenza e della maggior efficacia, scongiurando il rischio di smembramento e dissoluzione socio-culturale delle popolazioni colpite.

TESTO INTEGRALE DELLO STATUTO

IL NUOVO SITO INFORMATIVO




ULTIMO AGGIORNAMENTO 10 Gennaio 2011



PENSIERI E TESTIMONIANZE DEL VISSUTO

Sarebbe bello bloccare le lancette del tempo e farle fermare prima di quel maledetto 6 Aprile. Cancellare quei maledetti 28 secondi e far finta ci siano mai stati. La vocina di mia figlia Valeria che mi dice: “Grazie mamma per avermi rubato lo spazio nella macchina e grazie per gli auguri oggi è il mio compleanno, oggi è il 7 Aprile.” Sporca, frastornata mentre mi guardo allo specchio dell'autogrill dove abbiamo dormito...! Maledetto “sisma”, “terremoto” o come diamine vogliamo chiamarlo -Terribile- Mi sento sola.... triste.... stanca.... Ma soprattutto mi sento inerme! C'è un terremoto nel terremoto! Nella mia anima, nella mia famiglia. Vecchie crepe che si sono allargate. I giorni passano sempre uguali, lenti, sempre con gli stessi ritmi;anche se non più quelli di prima adesso sono grigi e monotoni. Mi guardo intorno: Mia madre -82 anni- di ossa sofferenti e la vita che non le ha risparmiato nulla, proprio nulla. Le ha tolto anche l'ultima cosa che aveva: La sua casa! Viva per miracolo... “Miracolata” è il caso di dire. Piange lacrime che non riescono più ad uscire...
Lacrime asciutte che non riescono neanche a rigarle il viso. Mi guardo anche io. Torno nella mia casa a Pettino...(materialmente il 29 Aprile) Apro la finestra, guardo fuori, palazzi striati, tapparelle chiuse aperte, panni stesi, sembrano bombardati... E' spettrale. Pettino, no! Baghdad è QUI.... Penso a l'Aquila “bella me”, alla Basilica di Collemaggio, ai vicoli, alle nicchie di San Bernardino, riaffiorano i ricordi della mia adolescenza!! Vorrei non pensarci e dimenticare... “Immota manet”. Prima per me era un difetto invece l'unica volta che dovevi restare ferma non hai potuto farlo.... Mia piccola, mia antica, mia bellissima Città.... Dove sei sepolta? Ricostruire.... Si ma come? Da dove ripartire? Le anime, le rughe degli anziani, i cuori affranti, le sensazioni.... dove trovare la forza? Abruzzo forte e gentile.... Dove ritrovare la gentilezza nel nostro cuore malato di sofferenza? Vorrei strapparmi i capelli, piangere, gridare, urlare.... Far tornare tutti quei ragazzi sfruttati nelle case fatiscenti! Unico reddito di una città senza lavoro.... Vorrei stringervi tutti e cullarvi... Vorrei dare amore e riceverlo... C'è ne tanto bisogno in questo momento! Aiutateci a rinascere ancora... Vorrei che il simbolo della città tornasse... Il rapace al suo posto (non me ne vogliano gli animalisti) simbolo di libertà, di fierezza e di orgoglio. Vorrei che Tu tornassi a sorridere e a volare... Volare, vivere e gioire....
A guardare quel cielo così azzurro, costellato dalle tue verdi montagne! Perché noi torneremo tutti... Saremo ancora di più, più forti, più uniti e più gentili che mai!
Antonella '60
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RISVEGLI


Dal sonno passai alla coscienza.
Ma la coscienza era un'allucinazione che la mia mente razionale non capiva.

Ricordo. Le mie braccia alzate verso l'alto da cui pioveva la calce.
Ricordo. Che ero stesa nel letto e saltavo rigida e orizzontale come scossa da una mano implcabile.
Ricordo. Il rombo insopportabile e il boato.
Ricordo. Le mie grida non più umane. E quelle dei miei figli e di mio marito nell'altra stanza.
Ricordo. Che pensai il morire. Mentre la casa era viva e saltava su se stessa.
Ricordo. Che l'intera città gridava dentro di me.
Ricordo. Che volevo i miei figli.

Poi si fermò.

Poi cigolò.

Poi il silenzio.

Poi la luce. Ma era notte.
Poi la calce bianca che mi avvolgeva.

Ero in piedi di scatto, come un balzo e cercai la strada.

Un mobile mi cadde. Lo lanciai lontano. Verso la finestra piena di luce bianca. (Ma le serrande le avevo tirate giù).

Ero fuori di me. La forza non era la mia. Il corpo non era il mio. La voce non era la mia.

Aprii la porta della camera con fatica (Ma io non l'avevo chiusa).

E trovai mio marito e i miei figli. Davanti a me. Vivi.

Fuori.
Dovevamo andare fuori.
Subito e fuori.

Sentivo cigolare.

Mio figlio e mio marito avevano le torce.

Io seguivo la luce di mio figlio.

Senza occhiali.

Senza fermarsi.

Fuori.

Camminavo in terra straniera. Non era più casa mia.
Camminavo nella calce.
Camminavo su terreno sconnesso. Erano i mobili. Erano i miei libri. Erano le librerie.

La porta di casa era spalancata.

Non guardai. Non guardai l'ascensore caduto.

Mio marito dietro ci urlò di non prendere le scale, ma cosa potevamo fare mio figlio ed io? Scendemmo.

Ricordo. Le mura squarciate.
Ricordo. Le scale sconnesse e infrante.
Ricordo. La calce su noi.
Ricordo. La luce surreale.

E fummo nell'androne.

Fuori.

Oltre l'atrio.

Fuori ci si salva.

E fummo fuori.

Era crollato tutto attorno a noi.

Guardai nella notte coi miei occhi che non vedevano, in una luce lunare tersa riflessa dalla calce intorno. Nitida. E vidi. E non capii. Sentii parlare mio marito. Sentii piangere. Sentii. Le persone uscite con noi.

Io riuscii solo a dire: "Sono crollate le mura della città".

Poi mio marito mi disse: "Quello è un tetto".

Guardavo la strada di casa nostra e non capivo. Non registravo. Che fosse un monte di macerie. Che ci fosse un tetto inclinato sopra. Che quel tetto un minuto prima fosse stato altrove. E che ora io lo stessi guardando così da vicino.

Bisognava fuggire via. Portare via i nostri bambini. Mia figlia in braccio a mio marito. Mio figlio davanti a me che mi faceva strada.

Via.

Ci arrampicammo su quelle pietre sventrate. Su quei tubi divelti. Oltre tetto. In alto. In alto.

Nel cigolio orribile della notte.
Sulle pietre roventi.

Salendo, la mia mente mi portò in vari luoghi. Uno era la mia gioventù. E in secondi frammentati mi apperve l'Irpinia. E poi le schegge di quelle liriche greche che conducevano all'Ade. Poi dante era una voce dentro me. "Per me si va nell'etterno dolore".

Adesso. Solo adesso capivo cosa intendeva. Una vita per capire. Ora sapevo.

Salendo pensai che avevo portato i miei figli all'inferno. Ora l'inferno aveva un volto e un senso.

Salendo pensai a Gaza e a quando permettiamo che quello che vivevo fosse fatto dall'uomo ad altri bambini.

Salendo non ero me. Ero solo terrore.

In alto, la geografia era cambiata. Quella che era una piazza non era più. Metri di macerie cambiavano il nostro mondo.

E solo in alto capii. La mia mente accettò di capire.

Non erano mura. Non erano pietre. Non erano tetti.

Erano case crollate.

E dentro le case c'erano i miei vicini di quartiere. I ragazzi che avevo visto rientrare con la valigia quella domenica. Le ragazze che stavano nel semi-interrato con il loro computer. E il ragazzo col cellulare spaventato dalla scossa serale. E il signore anziano con la sua famiglia che vivevano al piano terra.

Solo allora capii.

Solo allora.

Nel freddo e nel buio. Nel silenzio assurdo e immobile di quella notte. Mentre una mano compassionevole ci lanciava una coperta con cui coprire i bambini, i loro occhi, le loro spalle. Solo allora riuscii a capire. Nell'odore del gas che ci avvolse. Nel rombo che tornava della terra. Nel fruscio di palazzi che si frangevano.

Nelle grida di chi stava sopra e che cercava.

Nel pianto isterico.
Nella risata isterica di un rigazzo.

Allora capii dove eravamo entrati. E che confine avevamo varcato.

Poi cominciarono le voci, da sotto.
(Anna Guerrieri)

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NELLA NOTTE
E la notte trascorse così, in mezzo a quelle case trasformate e sconvolte, in mezzo allo squassamento di quel cemento armato così piegato, spezzato, divelto.

Non potevamo affrontare quelle motagne infrante. Non coi bambini. Non a piedi nudi. Non con me sotto shock. Non potevamo percorrere il lato che dava sulla montagna di Via Cola dell'Amatrice perchè non sapevamo cosa ci avrebbe aspettato lungo una costa di montagna.

Eravamo lì. Fermi. Tremando.

Eravamo una quindicina di persone? Non lo so. Forse di più.

Non avevamo i cellulari, qualcuno ce ne prestò uno. Nel gas e nella calce che ci circondavano. Chiamammo le nostre famiglie a Roma. I numeri che la nostra memoria permetteva. Piangemmo la nostra paura. La urlammo. Mentre arrivavano altre scosse. Chiedemmo di venirci ad aiutare.

Ma non fu facile per loro immaginare di prendere una macchina e venire.

E nel buio le scosse successive sembravano volerci spazzare via per sempre.

Dopo un'ora qualcuno era in cima a quelle montagne di detriti. Credetti fosse un vigile del fuoco.
Solo più tardi scopersi che era un ragazzo che cercava di fuggire e che si fermava alle grida che venivano da sotto.

Perchè erano macerie vive. Dolenti. Quelle che erano diventate la nostra vita per una notte.

Il dolore mi sconvolgeva. Non ero in grado più di intendere e volere alcunchè, nè di decidere.

Sentivo la morte che era tra noi e ci passava accanto, scegliendo.

La mia mente era così fuori di sè che temevo ci potessero cadere addosso gli altri palazzi. Temevo che la terra si squarciasse. Solo mio marito riusciva a tenermi fuori dall'allucinazione che vivevo e a richiamarmi indietro dalla paura e dallo shock. Io sentivo solo come un animale che dovevo portare via i miei figli da lì.

Sentivo, come per istinto, quello che era successo a pochi metri da noi, lungo la via che ci congiungeva a Campo di Fossa. Sentivo che si potevano aprire voragini a inghiottirci.

I miei erano i pensieri del terrore di quella notte.

All'improvviso focalizzai che c'erano voci da sotto, che piangevano. E quel ragazzo che era sopra, quello che io scambiavo per un vigile del fuoco, ci chiese di chiamare un nome. Una ragazza. Per tenerla in vita. Lui cercava aiuto.
Chiamammo. Chiamammo. Chiamammo. Chiamammo. Chiamammo piangendo.

So che quella ragazza si è salvata. Questo è un pensiero gentile in me.

Ombre nella notte ci raggiunsero. Ombre che cercavano i loro cari tra la Villa e via XX Settembre.

Ci dissero che Piazzale Paoli era una catastrofe come noi.
Ci dissero della casa dello studente.

E fu lì, che il mio shock esplose. Esplose all'improvviso, mentre pensai all'esonero per cui i miei studenti mi avevano chiesto delle ore extra per il lunedì. Pensai che li avevo fatti tornare io in quell'inferno. Pensai a quei maledetti palazzi accanto a me, pieni di loro. Pensai alle feste estive che davano e a come mi rallegravano e facevano piacere. Pensai.

E veramente ebbi il mio primo crollo di dolore.

Venni richiamata alla realtà dalla mia famiglia. Non potevo permettere a tutto quel dolore di uscire così.

Pensai che L'Aquila era distrutta. Pensai che era morta quella notte. Che noi eravamo vivi per caso e per finta.

Arrivò poi finalmente un amico, che con la divisa da guardia forestale riuscì a farci scivolare in un vicolo tra casa nostra e un altro palazzo, per rifugiarci davanti ad una villetta che dava direttamente sulla costa di montagna. Al riparo. Lontani da quelle macerie che grondavano sangue.

E fu così che entrai in una macchina, sotto una coperta, con mia figlia piccola.
Fu così che qualcuno diede delle felpe ai miei bambini e un pò di ristoro.

Mentre aspettavamo di essere salvati.

E fu così che arrivarono le prime notizie: da Collemaggio, da via XX settembre più giù, da via Sturzo che ci era accanto, da Campo di Fossa sempre più tragiche, dall'Ospedale, dal cuore del Centro.

Fu così che entrammo tutti nella nostra vita di adesso.

Noi, i sopravissuti.

Fu intorno alle 10 che mio marito riuscì a rientrare in casa. In mezzo alle continue vibrazioni che ci informavano di essere sempre preda del mostro che ci possedeva. Fu allora che potemmo davvero vestirci. Chiamare al telefono. Fuggire intorno al mezzogiorno.

La mia voce era mutata nella notte. Era rauca. Forte. Un urlo.

L'Aquila moriva e moriva dentro me. E non era un'idea, era la realtà tangibile. Era morte vera.

Sentivo la città crollare dentro di me.

Camminammo a piedi rasentando la montagna. Vedemmo gli squarci alla luce del sole. Seguimmo una spaccatura che si era aperta nella strada. Andammo prima a Scoppito da amici e poi la sera ci rifugiammo a Roma.

A lungo, guardano i palazzi di Roma li ho visti all'improvviso coprirsi di crepe e crollare. Incongrua visione nella dolce primavera romana.
( Anna Guerrieri)

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Ero a casa con il papà, la mamma, il fratellino e il cane, la notte della Domenica delle Palme.
Poco prima, quelli della Protezione Civile ci avevano esortati a ritornare alle nostre abitazioni.
Non era il caso di cedere a facili e stupidi allarmismi diffusi da imbecilli che avevano chissà quale interesse a diffondere il panico. C’erano decine di scosse al giorno e questo faceva capire che l’energia si stava sprigionando e non era prevista una spallata.


Alle 3.32 “la spallata” ci colse nel sonno, ma eravamo andati a letto vestiti. Quindi prese le nostre cose e scappammo. riuscii appena, nel panico, a mettere in tasca l’IPode e il cellulare.
Per tre notti dormimmo in macchina mentre io ripetevo, come in una cantilena rassicurante, le stesse domande che non trovavano mai risposta.
“Che succederà, che succederà. Mamma, dimmi che non succederà mai niente”.
Poi trovammo una sistemazione in tenda da otto dividendola coi nostri vicini di pianerottolo. Quattro brande alla mia famiglia e a me toccò anche un armadio di plastica e un comodino.
Tornammo a casa per prendere le prime cose e la terra ancora tremava.
Non ci fu il tempo per guardare tutto con attenzione. Eppure sapevo che le mie cose non le avrei viste forse più.
Ma la terra tremava.


Presi il portatile il cavo e qualche vestito, qualche indumento intimo. Le coperte.

Il mio diario, i miei libri (studiavo ingegneria civile), le mie letture, il mio bicchiere per la notte, le foto dei miei ex, i poster, i miei CD e tutti i miei film, la vecchia TV che mi ero portata in camera, lo stereo, Dolly la bambolina che mi aveva accompagnata nella mia crescita. E il posto solito dove si metteva il cane. La mia stilografica, i miei vestiti, quello buono per quando mi sarei laureata (ancora mai messo), e le mie creme, le lettere, le chiavi del mio amatissimo motorino. Guardai il salotto buono e quello moderno dove troneggiava un grande plasma ricoperto di polvere, i lampadari, le argenterie e le foto dei cari defunti che la mamma teneva sul comodino per custodirne il sonno e che –forse- avevano messo una mano su di loro e li avevano salvati.
La porta di casa si chiuse su tutto questo e sull’incertezza di riprendere la loro vita.
Ma erano loro, erano vivi, il cane stava bene. Sotto i piedi la terra tremava e non ci pensai poi tanto," Il pensiero è sfatto,
è la pena più grande,
anche se strapparsi di dosso gli oggetti è doloroso,

bisognava andare. "

Solo, mi si fermò il respiro in gola quando scendemmo giù al livello dei box e ci rendemmo conto che il palazzo era completamente imploso. Era sceso di due piani sulle fondamenta. Il mio motorino non esisteva più.

" Il suono delle macchine è come il calcare dell’acqua che sgorga singhiozzando sui pregiudizi,
le isole libere della mente vogliono restare tali.
A graffi per difendere questo diritto sacrosanto.
E la trivella continuava a lavorare imperterrita e insopportabile ""

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