L’Aquila-Haiti tam tam: le sventure esponenziali dei terremotati
di Antonio Gasbarrini
A vedere quelle inenarrabili scene apocalittiche haitiane tinte di grigio (polvere e macerie), rosso (sangue) e nero (morti), senti il tuo corpo – di terremotato aquilano scampato fisicamente alla tragedia del 6 aprile – pervaso dalle stesse scosse di un elettrochoc inferte ad un malato mentale. La realtà da cui sei attorniato non coincide più, dopo il Big One, con il topos, il luogo in cui credevi di aver ben impiantato le salde radici della tua sfuggevole esistenza terrena: “un’affacciata di finestra”, come dice saggiamente un proverbio marsicano.
Rivivi così al rallentatore la zigzagante dinamica di una traumatica sofferenza, amplificata fino al parossismo da numeri usciti fuori controllo con le centinaia di migliaia di morti e feriti ed i milioni senza cibo né tetto. Al momento, nelle discariche a cielo aperto ne hanno buttati dai camion, come inerti sacchi d’immondizia, 70.000. Subito ricoperti dal sordido lavorio delle ruspe in quelle fosse comuni della collinetta di Tytanien, già ampiamente utilizzate per altre decine di migliaia di oppositori, dai dittatori Duvalier, padre e figlio. L’impressionante cifra coincide con gli ex abitanti dell’intera città dell’Aquila: tutti sotterrati, quindi!
La tua impotenza e quella degli sventurati fratelli e sorelle haitiani di fronte alle ferocia devastatrice di una natura maligna – sono sempre i più poveri, i diseredati dimenticati da qualsivoglia dio, a “crepare” per primi – ti obbliga, comunque, una volta di più a guardarti intorno.
Il tuo piccolo cosmo di riferimento, il Paese dell’anima (Silone), visto dalla costa teramana in cui sei tuttora esiliato, è ancora la città natale, L’Aquila, o meglio la “Grande Aquila” comprensiva delle sue frazioni. Distrutta subito dopo la sua edificazione nella metà del Duecento da Manfredi, nuovamente legittimata poi da Carlo I D’Angiò (“Sey anni stette sconcia”, Buccio di Ranallo), ancora “messa giù” nei quattro secoli successivi da alcuni terribili terremoti, come quello del 1703.
Ma, l’aggettivo “terribile” non regge più di fronte all’ipertragedia haitiana, dove il peggio del peggio del Male è riuscito a scatenare tutte le energie negative d’una furibonda Natura, non contrastabili né da preghiere riparatrici, né tanto meno da esorcizzanti riti vudoo. Il vocabolario, d’ora in avanti, avrà bisogno di nuovi lemmi per significare l’orrore di tutto ciò che oltrepassa le inimmaginabili soglie del lutto, della sofferenza e della disperazione. Lo sterminio nei lager nazisti di circa 6 milioni di ebrei, zingari e omosessuali, ha già insegnato nel secolo scorso qualcosa in merito (si rileggano, in proposito, alcune pagine esemplari di George Steiner).
Un difficile confronto speculare tra il sisma aquilano delle 3.32 e quello haitiano delle 16.53, sembra mettere in luce due inconciliabili realtà: il “Paradiso terremotato” dei ricchi (i bianchi, occidentali aquilani, con le loro tende, casette, camere d’albergo, sotto la paterna ala protettiva emergenziale targata Protezione Civile) e l’ “Inferno sismico” dei pezzenti (i neri, caraibici haitiani, senza acqua, cibo, ospedali, medicine, ricoveri di fortuna; in un paio di parole, alle prese, da sempre, con la trionfante anarchia istituzionale).
Ti accorgi, inoltre, come le macerie, ogni tipo di macerie, si somiglino in modo impressionante. Perciò Haiti = L’Aquila, anche per quanto riguarda il cemento “disarmato”, taroccato dalla cupidigia dei costruttori-assassini, attecchiti, come nefasta gramigna, in ogni parte del globo.
Ti si stringe il cuore poi, quando ti tocca constatare come nella tua “fu città”, a circa 10 mesi dal sisma, i cumuli delle rovine stiano ancora tutti sparsi là, misurati e misurabili in tonnellate e metri cubi smaltibili in vari anni. Nel frattempo le crepe delle miglia di case non puntellate, si sono allargate a vista d’occhio. Con l’arrivo della inclemente stagione invernale, tra uno spanciamento e l’altro dovuti a piogge e gelo, case, palazzi, chiese e monumenti continueranno a cadere a pezzi o a crollare del tutto nelle disabitate zone rosse ancora presidiate da militari, quasi fosse ancora in corso una guerra: tra chi e che?
Ti viene irresistibile, allora, la voglia di urlare alla Münch. Più del 70% dell’ingente patrimonio monumentale, artistico e architettonico accumulato in circa 8 secoli dai progenitori, sta irrimediabilmente andando in rovina: lo ha coraggiosamente denunciato qualche giorno fa, con un’apposita lettera indirizzata al Capo del Governo, il Presidente d’Italia Nostra Alessandra Mottola Molfino, reclamando il varo di una legge speciale, finanziabile con il dirottamento dei vari miliardi di euro che saranno fagocitati dal faraonico Ponte di Messina. Né sono stati da meno il Presidente del Consiglio Nazionale del Ministero dei Beni Culturali Andrea Carandini ed il consigliere Gianfranco Cerasoli nel chiamare in causa l’esclusiva responsabilità della Protezione Civile per i mancati stanziamenti, inesistenti anche per la semplice copertura delle chiese sventrate (per tutte, l’ex gioiello della martoriata chiesa Capo quarto di S. Maria Paganica).
Di fronte all’oltraggio perpetrato, al limite del sacrilegio, ti chiedi e lo chiedi ad alta voce ai tuoi concittadini, cosa fare per rimediare a tanto scempio. Dovresti alzare le mani in segno di resa, come hanno già fatto molti aquilani beneficiati dal sisma. Nelle disgrazie collettive c’è sempre qualcuno che ci guadagna. Eppure non puoi non ribellarti. Quei Beni culturali che stanno andando in malora, facevano parte integrante del “tuo intangibile patrimonio spirituale”, una sorta di uso civico da te goduto gratuitamente sin dalla più tenera infanzia, allorché giocavi a pallone davanti al gigantesco spazio antistante la Basilica di S. Maria di Collemaggio, anch’essa ridotta a brandelli.
Poiché sei stato offeso ed impoverito difenditi, attaccando. Continuando a denunciare tutte le malefatte governative sulla inesistente ricostruzione dell’Aquila-città-fantasma. Chiedendo di nuovo i danni, materiali e morali, con una Class action azionabile non solo da te e dagli aquilani tutti, ma da coloro che nel futuro, se non cambierà la direzione di marcia, saranno privati per sempre della ineguagliabile Bellezza emanata da quelle pietre imbevute di storia e di memoria, ora declassate ad anonimi sassi. Smentire la fatale attrazione gravitazionale d’una tremante terra maledetta, con una bella frase dello scrittore Erri De Luca: “La macchina che negli alberi spinge linfa in alto è bellezza, perché solo la bellezza in natura contraddice la gravità”.
Bellezza vs Ignoranza. Già. Crassa ignoranza di chi (sig. b. in primis) ha semplicemente chiuso gli occhi, fatto finta di “non udire” i crescenti rantoli di quegli affreschi sminuzzati, di quei quadri e sculture ancora seppelliti, di quelle bifore, capitelli, portali, altari smembrati dalla incontenibile furia degli elementi. E tutto ciò, non già a causa di un destino cinico e baro, ma per l’insipienza, la superficialità, il dilettantismo, la tirchieria governativa in fatto di risorse finanziarie non-messe a disposizione per la “vera ricostruzione” di un’intera città, dove al momento non c’è più posto né per gli aquilani, né tanto meno per fantasmi e spettri. Dopo i reiterati, quindicennali bluff sulla riduzione delle tasse promesse dall’imperturbabile faccia bronzea del sig. b., risulta patetico il persistente lamento mantrico del Sindaco dell’Aquila Massimo Cialente sulla indifferibile istituzione di una tassa di solidarietà nazionale finalizzata alla riedificazione del Centro Storico. Tassa ch’era accettabile dagli italiani a stretto ridosso del sisma generatore anche di una forte onda emozionale, diventata vieppiù improponibile dopo lo sconquassante terremoto haitiano. Ridimensionante, con le sue vertiginose immagini mediatiche, l’evento aquilano, peraltro già scomparso dall’attenzione dei mass-media, com’è già percepibile dai ridotti servizi del TGR3 Abruzzo.
Il sole ingrigito dalle polveri haitiane oscurerà per sempre – non ci teniamo ad essere malauguranti profeti – i nitidi azzurri sovrastanti i solidificati silenzi della città-morta, geograficamente posizionata alla latitudine di 42,21 ed alla longitudine di 13,23: numeri magici la cui rispettiva somma, pari a 9, ha favorito da parte di alcuni studiosi, una lettura esoterica legata alla genesi del taumaturgico numero 99.
Avrà buon gioco allora, ne siamo sicuri, la propaganda governativa tesa ad esaltare il “miracolo italiano-aquilano” della sistemazione di 15.000-16.000 concittadini nelle “verdeggianti oasi delle c.a.s.e.tte”, miracolo da contrapporre al caos, alle violenze di ogni tipo ed alla completa disorganizzazione dei soccorsi in terra haitiana. Sottacendo un particolare non secondario: L’Aquila faceva e fa parte integrante dell’Italia e dell’Europa, cioè dell’Occidente opulento; l’Haiti francofona, da secoli sfruttata colonialisticamente ed i cui abitanti già soffrivano la fame prima del sisma, è, invece, tra i Paesi più poveri e arretrati del mondo. Un confronto, perciò, improponibile. Per di più offensivo per le decine e decine di migliaia di orfani isolani che costituiranno un vero banco di prova per la verifica di una non-pelosa, interessata solidarietà internazionale. L’infido neo-capitalismo globalizzato, soprattutto finanziario, sa perdere il pelo, ma non il vizio.
Anche se a prima vista potrà sembrare un paradosso, la riedificazione di buona parte della capitale Port-au-Prince e degli altri centri minori “appoltigliati” dal sisma di magnitudo 7.3 del 12 gennaio, presenterà aspetti problematici meno complessi di quelli facenti capo al Centro Storico dell’Aquila.
Là, infatti, è solamente un problema quantitativo, data la marginale presenza di edifici di pregio. Con risorse adeguate, peraltro provenienti esclusivamente dal sostegno finanziario di altri Paesi, sarà possibile ripianificare e riqualificare urbanisticamente il distrutto, senza prevedibili complicazioni di rilievo. Qui, a L’Aquila e negli altri centri storici dei dintorni, la salvaguardia dell’aspetto qualitativo (sintetizzabile nella parola d’ordine “dove era e come era”) sarà propedeutica ad una riuscita, sana e salvifica resurrezione. Non si tratterà semplicemente di ricostruire la città e gli altri centri storici minori devastati con criteri antisismici più affidabili e meno malandrini di quelli del passato. Piuttosto urge e sempre più sarà indifferibile, riprogettare ab ovo, ripensare con agguerriti strumenti scientifici, intellettuali e creativi, una città-territorio al momento inopinatamente smembrata dagli avventati, sciagurati, insediamenti popolari delle 19 little-towns (come continuo a definirle, al posto di new-towns).
Di nuovo, questi anonimi, standardizzati, costosissimi alloggi (chi e quanto ci ha guadagnato?), non hanno proprio niente, mentre di piccolo-piccolo, molto. Ad iniziare dalla caratteristica di essere, e lo saranno ancora per vari anni, dei semplici ghetti-dormitorio dove sarà consentito ai precari occupanti di sopravvivere alla meno peggio.
Un futuro meno opprimente per loro, per gli altri concittadini già rientrati in zona nelle loro abitazioni e per i circa 30.000 desparecidos nelle autonome sistemazioni e negli alberghi, ha un solo nome e cognome – L’Aquila / Città d’Europa – ed un univoco indirizzo: Centro Storico.
di Antonio Gasbarrini
Critico d’arte – Art Director del Centro Documentazione Artepoesia Contemporanea Angelus Novus, fondato nel 1988 (L’Aquila, Via Sassa 15, ZONA ROSSA). Attualmente “naufrago” sulla costa teramana
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CONTINUA A GALLEGGIARE LA MENZOGNA MEDIATICA SOPRA IL CIELO INCUPITO DELL'AQUILA TERREMOTATA
di Antonio Gasbarrini *
Gli aquilani tutti devono essere grati al Censis per aver finalmente cancellato (nel suo recente “Rapporto 2009”) il fraudolento messaggio mediatico sino a qui mandato in onda da un Governo del tutto insolvente, non solo finanziariamente, ma soprattutto moralmente nei loro confronti. Con la farsa della pubblicitaria “consegna rateale” delle C.a.s.e.tte ad una parte degli sventurati terremotati, si è di fatto ipnotizzata l’opinione pubblica nazionale ed internazionale. Dando per superata e risolta una tragedia che invece, per la gravità di una metastasi innescata il 6 aprile, sta divorando in modo irreversibile quel poco o niente rimasto in piedi del tessuto civile, economico e culturale di una comunità smembrata, dispersa nei ghetti-dormitorio della ventina di little towns, negli alberghi della costa o della provincia e negli altri alloggi di fortuna.
Cosa ha reso finalmente di dominio pubblico il Censis? Semplicemente l’esibizione del fantasma di un’intera città:«Quello che fino al 6 aprile era il cuore pulsante del capoluogo è ancora oggi una città fantasma, presidiata dall’esercito e inaccessibile senza permessi». Se ancora non lo avete fatto, ma volete incontrarlo per scambiare qualche mesta parola sulla sua straziante situazione, aggirate i posti di blocco militarizzati, entrando di prepotenza nel vero cuore maciullato della zona rossa della città svevo-angioina di Federico II, Corrado IV e Carlo I d’Angiò. A prima vista, essendo trascorsi 8 mesi-secolo da quel mortifero scossone, pensate che un malefico sortilegio abbia fermato il tempo e congelato lo spazio. Solo gli scheletrici puntellamenti messi spesso a casaccio qui e la, evocano la tremenda visione del tessuto “inurbano” di un’Aquila impagliata, o meglio, imbalsamata. Saranno però le montagne e montagne delle inamovibili macerie a farvi venire l’atroce dubbio del “che giorno è?”: 6 aprile o 6 dicembre? La confusione, nella mente e nell’anima dei terremotati, è più che normale. Eppure, qualcosa non quadra in quelle devastate e devastanti immagini di morte sgranate come un rosario dalla smodata furia della natura. Più vi inoltrate nel dedalo di vicoli e vicoletti deformati in blocco come pasta frolla, più v’interrogherete se siate immersi nella spasmodica situazione di un incubo senza uscita o negli avviluppati gangli d’una irriconoscibile realtà. Quei palazzi e quelle case ancora traballanti (ne dovranno essere demolite un migliaio); quelle chiese come S. Maria Paganica bombardate; quegli irriconoscibili monumenti sfregiati; quel silenzio di tomba avvolgente alla stregua di un sudario l’intera città a cui è stato dato un perdurante scacco matto, come potrà mai risollevarsi con le quotidiane menzogne mediatiche, le infiltrazioni mafiose, gli appalti pilotati da esponenti politici da mettere alla gogna nella Piazza del mercato, gli sciacallaggi di ogni tipo perpetrati anche da parte di indegni aquilani ai quali andrebbe subito revocata una cittadinanza immeritata? Sino ad oggi oscurata, bypassata dai massmedia governativi – cioè dalle reti televisive pubbliche e private concentrate nelle mani di un singolo proprietario, sempre e solo il sig. b.–, la città fantasma ulula vendetta. Chiedendo a squarciagola ineludibili risposte ai suoi pressanti “perché” ed al palese dilettantismo (non certamente mediatico) di chi ha finto di affrontare l’inedita complessità di una catastrofe senza precedenti, con la gestione verticistica ed antidemocratica di una emergenza data per finita. La dimostrazione? La chiusura ( “solo dopo otto mesi” ed in malo modo, che più male non si può..), delle ultime tendopoli. Ed i circa ventimila aquilani tuttora esiliati, le migliaia e migliaia di cassintegrati e disoccupati, di studenti universitari emigrati in altri atenei e di quelli rimasti nonostante non abbiano dove dormire o studiare, sono forse un semplice, irrilevante, “passeggero” numero statistico? Mah, lasciamo perdere l’emergenza, ancora acuta, checché ne dicano gli autoincensanti strombazzamenti di S. M. il sig. b., e tocchiamo invece il dolente tasto della ricostruzione. Se “Le parole sono pietre” come ci ha insegnato Primo Levi, le pietre aquilane rovinate così malamente in basso non possono essere adulterate, né tanto meno contrabbandate con la sfrontata esibizione massmediatica di C.a.s.e.tte in cartongesso e di Moduli abitativi provvisori (senz’altro benvenuti e benedetti per chi, reduce dal penoso esilio, ha trovato finalmente un po’ di tregua), di baracche e baracchette lignee spacciate per lussuosi chalet. Abitazioni peraltro finanziate in larga misura con la gratuita, non pelosa, solidarietà nazionale ed europea. Se non andiamo errati, infatti, dei circa 500 milioni di euro messi a disposizione dalla Comunità europea per la ricostruzione della città, ben 350 sono stati dirottati al progetto C.a.s.e.tte. Apparentemente un semplice trucchetto contabile con cui si è alleggerito il già miserrimo impegno finanziario statale sino a qui garantito a singhiozzo; sostanzialmente, invece, un grave danno per l’effettiva ricostruzione del capoluogo abruzzese. En passant, non si capisce perché ad intervenire nelle reiterate inaugurazioni con telecamere e codazzo di cronisti al seguito di S. M. il sig. b., non sia Barroso o un altro rappresentante della Comunità Europea. Quelle stesse parole di Primo Levi avocate recentemente a sé dal cardinale Bertone («Le tante promesse fatte per la ricostruzione delle zone terremotate dell’Abruzzo, divengano realtà e non rimangano solo parole»), devono essere scaturite dalla crescente consapevolezza della presa in giro (per non usare un altro termine più appropriato) degli aquilani con lo spostamento del G8 dalla Sardegna a L’Aquila nello scorso Luglio. Teso ad impietosire il mondo esibendo senza alcun ritegno solo una piccolissima parte (spesso non significativa) del suo martirizzato corpo. Si dava così per scontato il successo della sottoscrizione di una colletta internazionale di 350 milioni di euro, con l’adozione simbolica dei 44 monumenti (dal Castello Cinquecentesco alla Basilica di S. Maria di Collemaggio), colletta verbalmente condivisa durante il G8 dai vari Capi di Stato, alla prova dei fatti pressoché volatilizzatasi. La “lungimirante” scelta si è risolta così non solo in un clamoroso flop, ma in uno spreco di denaro pubblico accertata la perfetta inutilità della “demenziale” scelta governativa, anche da me denunciata in tempi non sospetti nell’articolo “Celestino, Margherita, Barack e le patacche del Cavaliere” tuttora leggibile in rete. Dopo aver girovagato nel centro storico preso in ostaggio dalla Protezione Civile ed esservi asciugata l’ultima lacrima catartica, fate un salto nella Basilica di S. Maria di Collemaggio. Qui capirete (“spiando” dalla porta centrale, spesso socchiusa, possibilmente muniti di binocolo in quanto nemmeno al docente universitario Fabio Redi, profondo conoscitore della chiesa per averla studiata insieme ai suoi allievi, è stato consentito di accedervi) come mai tra le sue macerie siano marciti opere ed arredi sacri d’ogni genere (il preziosissimo organo perfettamente funzionante prima del sisma, è diventato oramai un semplice reperto d’antiquariato). Quel tetto sventrato e tutto quel ben di Dio venuto giù senza alcun riguardo nemmeno per il suo padrone di casa, Celestino V, meritavano almeno qualche telone per una loro immediata protezione. La ricostruzione mai cominciata (ancora una volta: perché?!) e la reale situazione non-più-urbana-della-città-morta su cui si è infierito con le improvvide scelte sino a qui adottate con la plurifondazione della ventina di little towns, impone pertanto l’uso di un termine lessicale più appropriato: destrutturazione. È stato facilissimo, per le indomabili forze della natura, distruggere un’intera città in una manciata di secondi. Per destrutturarla, cambiando radicalmente le regole del gioco della civile convivenza per 15.000 (su 70.000) suoi ex-cittadini dispersi qui e là come foglie al vento negli insulsi insediamenti cementificati distribuiti a raggiera ad una distanza media di 15-20 km dalla città capoluogo, ci son voluti pochi mesi. Per ricostruirla dalla a alla zeta ci vorranno anni ed ingenti risorse finanziarie, se non altro per sbugiardare la più che menzognera, provocatoria dichiarazione del Ministro dell’Economia Giulio Tremonti:«All’Aquila e all’Abruzzo abbiamo dato tanto, anche troppo». Se la cosiddetta ricostruzione leggera per gli edifici non danneggiati gravemente (stiamo parlando della periferia, in quanto per la parte più vitale del centro storico le maledette lettere E ed F sono la norma) è stato un totale fallimento, quella pesante, delle pietre cioè, presuppone un approccio illuministico alternativo rispetto a quello raffazzonato sino ad oggi praticato. Si rifletta solo un momento: c’è stato un rapporto di causa ed effetto tra questo fallimento e l’impossibilità per almeno 10.000-15.000 aquilani di rientrare nel giro di due-tre mesi nelle loro abitazioni, con conseguente aggravamento della situazione occupazionale, dato che il loro reddito è stato speso subito dopo il 6 aprile, ed è tuttora circuitato, prevalentemente nelle province di Teramo e Pescara. Per ridipingire, riplasmare da capo a fondo ed a regola d’arte il radioso volto di una delle più belle città d’Italia, è consigliabile attenersi a questo provvisorio quanto emendabile decalogo stilato sulla base del dibattito in corso. Si tratta di 10 parole d’ordine. Presuppongono condivisione, mobilitazione, antagonismo e lotta: 1) “Rinascenza della nobile città dell’Aquila”, con l’emanazione di una legge speciale; 2) “L’Aquila patrimonio dell’umanità e dell’Unesco”; 3) “L’Aquila città d’Europa”, con rinnovato sostegno finanziario della Comunità Europea per accelerarne il reingresso civile economico e culturale a pieno titolo; 4) “L’Aquila città laboratorio”, con la costituzione di comitati scientifici di calibratura internazionale per l’elaborazione di unitari ed interdipendenti progetti urbanistici d’avanguardia, in stretto raccordo con l’Università; 5) “Solidarietà degli italiani per L’Aquila distrutta”, con l’indifferibile istituzione di una tassa di scopo che dia certezze su flussi finanziari non legati alle strambe estrazioni del lotto; 6) “L’Aquila zona franca”, per il rilancio delle attività produttive, commerciali e dei servizi; 7) “L’Aquila NO imposte IRPEF, ICI…”, almeno per l’anno 2010; 8) “L’Aquila 100 % finanziamento seconde case”, anche per i non residenti; 9) “L’Aquila operazione ripopolamento Centro Storico”, con l’individuazione dei blocchi-isola urbani da “resuscitare” mediante un rigido cronoprogramma finalizzato alla “rioccupazione” di abitazioni, uffici, negozi, scuole, spazi culturali; 10) “L’Aquila artistica e monumentale da salvare”, con ristrutturazione, recupero e restauro degli edifici religiosi, monumentali e di particolare pregio artistico, nonché delle opere d’arte danneggiate ed il rientro di quelle “emigrate” a causa del terremoto. Siano gli sparuti addobbi delle feste natalizie di buon augurio nel riaccendere, come stelle, le luci della speranza sul cielo incupito dell’Aquila terremotata. Spettrale quanto si voglia, ma vigile, diffidente e tosta più che mai!.
Antonio Gasbarrini
* Critico d’arte – Art Director del Centro Documentazione Artepoesia Contemporanea Angelus Novus, fondato nel 1988 (L’Aquila, Via Sassa 15, ZONA ROSSA). Attualmente “naufrago” sulla costa teramana.
A vedere quelle inenarrabili scene apocalittiche haitiane tinte di grigio (polvere e macerie), rosso (sangue) e nero (morti), senti il tuo corpo – di terremotato aquilano scampato fisicamente alla tragedia del 6 aprile – pervaso dalle stesse scosse di un elettrochoc inferte ad un malato mentale. La realtà da cui sei attorniato non coincide più, dopo il Big One, con il topos, il luogo in cui credevi di aver ben impiantato le salde radici della tua sfuggevole esistenza terrena: “un’affacciata di finestra”, come dice saggiamente un proverbio marsicano.
Rivivi così al rallentatore la zigzagante dinamica di una traumatica sofferenza, amplificata fino al parossismo da numeri usciti fuori controllo con le centinaia di migliaia di morti e feriti ed i milioni senza cibo né tetto. Al momento, nelle discariche a cielo aperto ne hanno buttati dai camion, come inerti sacchi d’immondizia, 70.000. Subito ricoperti dal sordido lavorio delle ruspe in quelle fosse comuni della collinetta di Tytanien, già ampiamente utilizzate per altre decine di migliaia di oppositori, dai dittatori Duvalier, padre e figlio. L’impressionante cifra coincide con gli ex abitanti dell’intera città dell’Aquila: tutti sotterrati, quindi!
La tua impotenza e quella degli sventurati fratelli e sorelle haitiani di fronte alle ferocia devastatrice di una natura maligna – sono sempre i più poveri, i diseredati dimenticati da qualsivoglia dio, a “crepare” per primi – ti obbliga, comunque, una volta di più a guardarti intorno.
Il tuo piccolo cosmo di riferimento, il Paese dell’anima (Silone), visto dalla costa teramana in cui sei tuttora esiliato, è ancora la città natale, L’Aquila, o meglio la “Grande Aquila” comprensiva delle sue frazioni. Distrutta subito dopo la sua edificazione nella metà del Duecento da Manfredi, nuovamente legittimata poi da Carlo I D’Angiò (“Sey anni stette sconcia”, Buccio di Ranallo), ancora “messa giù” nei quattro secoli successivi da alcuni terribili terremoti, come quello del 1703.
Ma, l’aggettivo “terribile” non regge più di fronte all’ipertragedia haitiana, dove il peggio del peggio del Male è riuscito a scatenare tutte le energie negative d’una furibonda Natura, non contrastabili né da preghiere riparatrici, né tanto meno da esorcizzanti riti vudoo. Il vocabolario, d’ora in avanti, avrà bisogno di nuovi lemmi per significare l’orrore di tutto ciò che oltrepassa le inimmaginabili soglie del lutto, della sofferenza e della disperazione. Lo sterminio nei lager nazisti di circa 6 milioni di ebrei, zingari e omosessuali, ha già insegnato nel secolo scorso qualcosa in merito (si rileggano, in proposito, alcune pagine esemplari di George Steiner).
Un difficile confronto speculare tra il sisma aquilano delle 3.32 e quello haitiano delle 16.53, sembra mettere in luce due inconciliabili realtà: il “Paradiso terremotato” dei ricchi (i bianchi, occidentali aquilani, con le loro tende, casette, camere d’albergo, sotto la paterna ala protettiva emergenziale targata Protezione Civile) e l’ “Inferno sismico” dei pezzenti (i neri, caraibici haitiani, senza acqua, cibo, ospedali, medicine, ricoveri di fortuna; in un paio di parole, alle prese, da sempre, con la trionfante anarchia istituzionale).
Ti accorgi, inoltre, come le macerie, ogni tipo di macerie, si somiglino in modo impressionante. Perciò Haiti = L’Aquila, anche per quanto riguarda il cemento “disarmato”, taroccato dalla cupidigia dei costruttori-assassini, attecchiti, come nefasta gramigna, in ogni parte del globo.
Ti si stringe il cuore poi, quando ti tocca constatare come nella tua “fu città”, a circa 10 mesi dal sisma, i cumuli delle rovine stiano ancora tutti sparsi là, misurati e misurabili in tonnellate e metri cubi smaltibili in vari anni. Nel frattempo le crepe delle miglia di case non puntellate, si sono allargate a vista d’occhio. Con l’arrivo della inclemente stagione invernale, tra uno spanciamento e l’altro dovuti a piogge e gelo, case, palazzi, chiese e monumenti continueranno a cadere a pezzi o a crollare del tutto nelle disabitate zone rosse ancora presidiate da militari, quasi fosse ancora in corso una guerra: tra chi e che?
Ti viene irresistibile, allora, la voglia di urlare alla Münch. Più del 70% dell’ingente patrimonio monumentale, artistico e architettonico accumulato in circa 8 secoli dai progenitori, sta irrimediabilmente andando in rovina: lo ha coraggiosamente denunciato qualche giorno fa, con un’apposita lettera indirizzata al Capo del Governo, il Presidente d’Italia Nostra Alessandra Mottola Molfino, reclamando il varo di una legge speciale, finanziabile con il dirottamento dei vari miliardi di euro che saranno fagocitati dal faraonico Ponte di Messina. Né sono stati da meno il Presidente del Consiglio Nazionale del Ministero dei Beni Culturali Andrea Carandini ed il consigliere Gianfranco Cerasoli nel chiamare in causa l’esclusiva responsabilità della Protezione Civile per i mancati stanziamenti, inesistenti anche per la semplice copertura delle chiese sventrate (per tutte, l’ex gioiello della martoriata chiesa Capo quarto di S. Maria Paganica).
Di fronte all’oltraggio perpetrato, al limite del sacrilegio, ti chiedi e lo chiedi ad alta voce ai tuoi concittadini, cosa fare per rimediare a tanto scempio. Dovresti alzare le mani in segno di resa, come hanno già fatto molti aquilani beneficiati dal sisma. Nelle disgrazie collettive c’è sempre qualcuno che ci guadagna. Eppure non puoi non ribellarti. Quei Beni culturali che stanno andando in malora, facevano parte integrante del “tuo intangibile patrimonio spirituale”, una sorta di uso civico da te goduto gratuitamente sin dalla più tenera infanzia, allorché giocavi a pallone davanti al gigantesco spazio antistante la Basilica di S. Maria di Collemaggio, anch’essa ridotta a brandelli.
Poiché sei stato offeso ed impoverito difenditi, attaccando. Continuando a denunciare tutte le malefatte governative sulla inesistente ricostruzione dell’Aquila-città-fantasma. Chiedendo di nuovo i danni, materiali e morali, con una Class action azionabile non solo da te e dagli aquilani tutti, ma da coloro che nel futuro, se non cambierà la direzione di marcia, saranno privati per sempre della ineguagliabile Bellezza emanata da quelle pietre imbevute di storia e di memoria, ora declassate ad anonimi sassi. Smentire la fatale attrazione gravitazionale d’una tremante terra maledetta, con una bella frase dello scrittore Erri De Luca: “La macchina che negli alberi spinge linfa in alto è bellezza, perché solo la bellezza in natura contraddice la gravità”.
Bellezza vs Ignoranza. Già. Crassa ignoranza di chi (sig. b. in primis) ha semplicemente chiuso gli occhi, fatto finta di “non udire” i crescenti rantoli di quegli affreschi sminuzzati, di quei quadri e sculture ancora seppelliti, di quelle bifore, capitelli, portali, altari smembrati dalla incontenibile furia degli elementi. E tutto ciò, non già a causa di un destino cinico e baro, ma per l’insipienza, la superficialità, il dilettantismo, la tirchieria governativa in fatto di risorse finanziarie non-messe a disposizione per la “vera ricostruzione” di un’intera città, dove al momento non c’è più posto né per gli aquilani, né tanto meno per fantasmi e spettri. Dopo i reiterati, quindicennali bluff sulla riduzione delle tasse promesse dall’imperturbabile faccia bronzea del sig. b., risulta patetico il persistente lamento mantrico del Sindaco dell’Aquila Massimo Cialente sulla indifferibile istituzione di una tassa di solidarietà nazionale finalizzata alla riedificazione del Centro Storico. Tassa ch’era accettabile dagli italiani a stretto ridosso del sisma generatore anche di una forte onda emozionale, diventata vieppiù improponibile dopo lo sconquassante terremoto haitiano. Ridimensionante, con le sue vertiginose immagini mediatiche, l’evento aquilano, peraltro già scomparso dall’attenzione dei mass-media, com’è già percepibile dai ridotti servizi del TGR3 Abruzzo.
Il sole ingrigito dalle polveri haitiane oscurerà per sempre – non ci teniamo ad essere malauguranti profeti – i nitidi azzurri sovrastanti i solidificati silenzi della città-morta, geograficamente posizionata alla latitudine di 42,21 ed alla longitudine di 13,23: numeri magici la cui rispettiva somma, pari a 9, ha favorito da parte di alcuni studiosi, una lettura esoterica legata alla genesi del taumaturgico numero 99.
Avrà buon gioco allora, ne siamo sicuri, la propaganda governativa tesa ad esaltare il “miracolo italiano-aquilano” della sistemazione di 15.000-16.000 concittadini nelle “verdeggianti oasi delle c.a.s.e.tte”, miracolo da contrapporre al caos, alle violenze di ogni tipo ed alla completa disorganizzazione dei soccorsi in terra haitiana. Sottacendo un particolare non secondario: L’Aquila faceva e fa parte integrante dell’Italia e dell’Europa, cioè dell’Occidente opulento; l’Haiti francofona, da secoli sfruttata colonialisticamente ed i cui abitanti già soffrivano la fame prima del sisma, è, invece, tra i Paesi più poveri e arretrati del mondo. Un confronto, perciò, improponibile. Per di più offensivo per le decine e decine di migliaia di orfani isolani che costituiranno un vero banco di prova per la verifica di una non-pelosa, interessata solidarietà internazionale. L’infido neo-capitalismo globalizzato, soprattutto finanziario, sa perdere il pelo, ma non il vizio.
Anche se a prima vista potrà sembrare un paradosso, la riedificazione di buona parte della capitale Port-au-Prince e degli altri centri minori “appoltigliati” dal sisma di magnitudo 7.3 del 12 gennaio, presenterà aspetti problematici meno complessi di quelli facenti capo al Centro Storico dell’Aquila.
Là, infatti, è solamente un problema quantitativo, data la marginale presenza di edifici di pregio. Con risorse adeguate, peraltro provenienti esclusivamente dal sostegno finanziario di altri Paesi, sarà possibile ripianificare e riqualificare urbanisticamente il distrutto, senza prevedibili complicazioni di rilievo. Qui, a L’Aquila e negli altri centri storici dei dintorni, la salvaguardia dell’aspetto qualitativo (sintetizzabile nella parola d’ordine “dove era e come era”) sarà propedeutica ad una riuscita, sana e salvifica resurrezione. Non si tratterà semplicemente di ricostruire la città e gli altri centri storici minori devastati con criteri antisismici più affidabili e meno malandrini di quelli del passato. Piuttosto urge e sempre più sarà indifferibile, riprogettare ab ovo, ripensare con agguerriti strumenti scientifici, intellettuali e creativi, una città-territorio al momento inopinatamente smembrata dagli avventati, sciagurati, insediamenti popolari delle 19 little-towns (come continuo a definirle, al posto di new-towns).
Di nuovo, questi anonimi, standardizzati, costosissimi alloggi (chi e quanto ci ha guadagnato?), non hanno proprio niente, mentre di piccolo-piccolo, molto. Ad iniziare dalla caratteristica di essere, e lo saranno ancora per vari anni, dei semplici ghetti-dormitorio dove sarà consentito ai precari occupanti di sopravvivere alla meno peggio.
Un futuro meno opprimente per loro, per gli altri concittadini già rientrati in zona nelle loro abitazioni e per i circa 30.000 desparecidos nelle autonome sistemazioni e negli alberghi, ha un solo nome e cognome – L’Aquila / Città d’Europa – ed un univoco indirizzo: Centro Storico.
di Antonio Gasbarrini
Critico d’arte – Art Director del Centro Documentazione Artepoesia Contemporanea Angelus Novus, fondato nel 1988 (L’Aquila, Via Sassa 15, ZONA ROSSA). Attualmente “naufrago” sulla costa teramana
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CONTINUA A GALLEGGIARE LA MENZOGNA MEDIATICA SOPRA IL CIELO INCUPITO DELL'AQUILA TERREMOTATA
di Antonio Gasbarrini *
Gli aquilani tutti devono essere grati al Censis per aver finalmente cancellato (nel suo recente “Rapporto 2009”) il fraudolento messaggio mediatico sino a qui mandato in onda da un Governo del tutto insolvente, non solo finanziariamente, ma soprattutto moralmente nei loro confronti. Con la farsa della pubblicitaria “consegna rateale” delle C.a.s.e.tte ad una parte degli sventurati terremotati, si è di fatto ipnotizzata l’opinione pubblica nazionale ed internazionale. Dando per superata e risolta una tragedia che invece, per la gravità di una metastasi innescata il 6 aprile, sta divorando in modo irreversibile quel poco o niente rimasto in piedi del tessuto civile, economico e culturale di una comunità smembrata, dispersa nei ghetti-dormitorio della ventina di little towns, negli alberghi della costa o della provincia e negli altri alloggi di fortuna.
Cosa ha reso finalmente di dominio pubblico il Censis? Semplicemente l’esibizione del fantasma di un’intera città:«Quello che fino al 6 aprile era il cuore pulsante del capoluogo è ancora oggi una città fantasma, presidiata dall’esercito e inaccessibile senza permessi». Se ancora non lo avete fatto, ma volete incontrarlo per scambiare qualche mesta parola sulla sua straziante situazione, aggirate i posti di blocco militarizzati, entrando di prepotenza nel vero cuore maciullato della zona rossa della città svevo-angioina di Federico II, Corrado IV e Carlo I d’Angiò. A prima vista, essendo trascorsi 8 mesi-secolo da quel mortifero scossone, pensate che un malefico sortilegio abbia fermato il tempo e congelato lo spazio. Solo gli scheletrici puntellamenti messi spesso a casaccio qui e la, evocano la tremenda visione del tessuto “inurbano” di un’Aquila impagliata, o meglio, imbalsamata. Saranno però le montagne e montagne delle inamovibili macerie a farvi venire l’atroce dubbio del “che giorno è?”: 6 aprile o 6 dicembre? La confusione, nella mente e nell’anima dei terremotati, è più che normale. Eppure, qualcosa non quadra in quelle devastate e devastanti immagini di morte sgranate come un rosario dalla smodata furia della natura. Più vi inoltrate nel dedalo di vicoli e vicoletti deformati in blocco come pasta frolla, più v’interrogherete se siate immersi nella spasmodica situazione di un incubo senza uscita o negli avviluppati gangli d’una irriconoscibile realtà. Quei palazzi e quelle case ancora traballanti (ne dovranno essere demolite un migliaio); quelle chiese come S. Maria Paganica bombardate; quegli irriconoscibili monumenti sfregiati; quel silenzio di tomba avvolgente alla stregua di un sudario l’intera città a cui è stato dato un perdurante scacco matto, come potrà mai risollevarsi con le quotidiane menzogne mediatiche, le infiltrazioni mafiose, gli appalti pilotati da esponenti politici da mettere alla gogna nella Piazza del mercato, gli sciacallaggi di ogni tipo perpetrati anche da parte di indegni aquilani ai quali andrebbe subito revocata una cittadinanza immeritata? Sino ad oggi oscurata, bypassata dai massmedia governativi – cioè dalle reti televisive pubbliche e private concentrate nelle mani di un singolo proprietario, sempre e solo il sig. b.–, la città fantasma ulula vendetta. Chiedendo a squarciagola ineludibili risposte ai suoi pressanti “perché” ed al palese dilettantismo (non certamente mediatico) di chi ha finto di affrontare l’inedita complessità di una catastrofe senza precedenti, con la gestione verticistica ed antidemocratica di una emergenza data per finita. La dimostrazione? La chiusura ( “solo dopo otto mesi” ed in malo modo, che più male non si può..), delle ultime tendopoli. Ed i circa ventimila aquilani tuttora esiliati, le migliaia e migliaia di cassintegrati e disoccupati, di studenti universitari emigrati in altri atenei e di quelli rimasti nonostante non abbiano dove dormire o studiare, sono forse un semplice, irrilevante, “passeggero” numero statistico? Mah, lasciamo perdere l’emergenza, ancora acuta, checché ne dicano gli autoincensanti strombazzamenti di S. M. il sig. b., e tocchiamo invece il dolente tasto della ricostruzione. Se “Le parole sono pietre” come ci ha insegnato Primo Levi, le pietre aquilane rovinate così malamente in basso non possono essere adulterate, né tanto meno contrabbandate con la sfrontata esibizione massmediatica di C.a.s.e.tte in cartongesso e di Moduli abitativi provvisori (senz’altro benvenuti e benedetti per chi, reduce dal penoso esilio, ha trovato finalmente un po’ di tregua), di baracche e baracchette lignee spacciate per lussuosi chalet. Abitazioni peraltro finanziate in larga misura con la gratuita, non pelosa, solidarietà nazionale ed europea. Se non andiamo errati, infatti, dei circa 500 milioni di euro messi a disposizione dalla Comunità europea per la ricostruzione della città, ben 350 sono stati dirottati al progetto C.a.s.e.tte. Apparentemente un semplice trucchetto contabile con cui si è alleggerito il già miserrimo impegno finanziario statale sino a qui garantito a singhiozzo; sostanzialmente, invece, un grave danno per l’effettiva ricostruzione del capoluogo abruzzese. En passant, non si capisce perché ad intervenire nelle reiterate inaugurazioni con telecamere e codazzo di cronisti al seguito di S. M. il sig. b., non sia Barroso o un altro rappresentante della Comunità Europea. Quelle stesse parole di Primo Levi avocate recentemente a sé dal cardinale Bertone («Le tante promesse fatte per la ricostruzione delle zone terremotate dell’Abruzzo, divengano realtà e non rimangano solo parole»), devono essere scaturite dalla crescente consapevolezza della presa in giro (per non usare un altro termine più appropriato) degli aquilani con lo spostamento del G8 dalla Sardegna a L’Aquila nello scorso Luglio. Teso ad impietosire il mondo esibendo senza alcun ritegno solo una piccolissima parte (spesso non significativa) del suo martirizzato corpo. Si dava così per scontato il successo della sottoscrizione di una colletta internazionale di 350 milioni di euro, con l’adozione simbolica dei 44 monumenti (dal Castello Cinquecentesco alla Basilica di S. Maria di Collemaggio), colletta verbalmente condivisa durante il G8 dai vari Capi di Stato, alla prova dei fatti pressoché volatilizzatasi. La “lungimirante” scelta si è risolta così non solo in un clamoroso flop, ma in uno spreco di denaro pubblico accertata la perfetta inutilità della “demenziale” scelta governativa, anche da me denunciata in tempi non sospetti nell’articolo “Celestino, Margherita, Barack e le patacche del Cavaliere” tuttora leggibile in rete. Dopo aver girovagato nel centro storico preso in ostaggio dalla Protezione Civile ed esservi asciugata l’ultima lacrima catartica, fate un salto nella Basilica di S. Maria di Collemaggio. Qui capirete (“spiando” dalla porta centrale, spesso socchiusa, possibilmente muniti di binocolo in quanto nemmeno al docente universitario Fabio Redi, profondo conoscitore della chiesa per averla studiata insieme ai suoi allievi, è stato consentito di accedervi) come mai tra le sue macerie siano marciti opere ed arredi sacri d’ogni genere (il preziosissimo organo perfettamente funzionante prima del sisma, è diventato oramai un semplice reperto d’antiquariato). Quel tetto sventrato e tutto quel ben di Dio venuto giù senza alcun riguardo nemmeno per il suo padrone di casa, Celestino V, meritavano almeno qualche telone per una loro immediata protezione. La ricostruzione mai cominciata (ancora una volta: perché?!) e la reale situazione non-più-urbana-della-città-morta su cui si è infierito con le improvvide scelte sino a qui adottate con la plurifondazione della ventina di little towns, impone pertanto l’uso di un termine lessicale più appropriato: destrutturazione. È stato facilissimo, per le indomabili forze della natura, distruggere un’intera città in una manciata di secondi. Per destrutturarla, cambiando radicalmente le regole del gioco della civile convivenza per 15.000 (su 70.000) suoi ex-cittadini dispersi qui e là come foglie al vento negli insulsi insediamenti cementificati distribuiti a raggiera ad una distanza media di 15-20 km dalla città capoluogo, ci son voluti pochi mesi. Per ricostruirla dalla a alla zeta ci vorranno anni ed ingenti risorse finanziarie, se non altro per sbugiardare la più che menzognera, provocatoria dichiarazione del Ministro dell’Economia Giulio Tremonti:«All’Aquila e all’Abruzzo abbiamo dato tanto, anche troppo». Se la cosiddetta ricostruzione leggera per gli edifici non danneggiati gravemente (stiamo parlando della periferia, in quanto per la parte più vitale del centro storico le maledette lettere E ed F sono la norma) è stato un totale fallimento, quella pesante, delle pietre cioè, presuppone un approccio illuministico alternativo rispetto a quello raffazzonato sino ad oggi praticato. Si rifletta solo un momento: c’è stato un rapporto di causa ed effetto tra questo fallimento e l’impossibilità per almeno 10.000-15.000 aquilani di rientrare nel giro di due-tre mesi nelle loro abitazioni, con conseguente aggravamento della situazione occupazionale, dato che il loro reddito è stato speso subito dopo il 6 aprile, ed è tuttora circuitato, prevalentemente nelle province di Teramo e Pescara. Per ridipingire, riplasmare da capo a fondo ed a regola d’arte il radioso volto di una delle più belle città d’Italia, è consigliabile attenersi a questo provvisorio quanto emendabile decalogo stilato sulla base del dibattito in corso. Si tratta di 10 parole d’ordine. Presuppongono condivisione, mobilitazione, antagonismo e lotta: 1) “Rinascenza della nobile città dell’Aquila”, con l’emanazione di una legge speciale; 2) “L’Aquila patrimonio dell’umanità e dell’Unesco”; 3) “L’Aquila città d’Europa”, con rinnovato sostegno finanziario della Comunità Europea per accelerarne il reingresso civile economico e culturale a pieno titolo; 4) “L’Aquila città laboratorio”, con la costituzione di comitati scientifici di calibratura internazionale per l’elaborazione di unitari ed interdipendenti progetti urbanistici d’avanguardia, in stretto raccordo con l’Università; 5) “Solidarietà degli italiani per L’Aquila distrutta”, con l’indifferibile istituzione di una tassa di scopo che dia certezze su flussi finanziari non legati alle strambe estrazioni del lotto; 6) “L’Aquila zona franca”, per il rilancio delle attività produttive, commerciali e dei servizi; 7) “L’Aquila NO imposte IRPEF, ICI…”, almeno per l’anno 2010; 8) “L’Aquila 100 % finanziamento seconde case”, anche per i non residenti; 9) “L’Aquila operazione ripopolamento Centro Storico”, con l’individuazione dei blocchi-isola urbani da “resuscitare” mediante un rigido cronoprogramma finalizzato alla “rioccupazione” di abitazioni, uffici, negozi, scuole, spazi culturali; 10) “L’Aquila artistica e monumentale da salvare”, con ristrutturazione, recupero e restauro degli edifici religiosi, monumentali e di particolare pregio artistico, nonché delle opere d’arte danneggiate ed il rientro di quelle “emigrate” a causa del terremoto. Siano gli sparuti addobbi delle feste natalizie di buon augurio nel riaccendere, come stelle, le luci della speranza sul cielo incupito dell’Aquila terremotata. Spettrale quanto si voglia, ma vigile, diffidente e tosta più che mai!.
Antonio Gasbarrini
* Critico d’arte – Art Director del Centro Documentazione Artepoesia Contemporanea Angelus Novus, fondato nel 1988 (L’Aquila, Via Sassa 15, ZONA ROSSA). Attualmente “naufrago” sulla costa teramana.
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